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 2013  aprile 06 Sabato calendario

L’AQUILA SEMPRE FERMA? NO, ORA È ANCHE PEGGIO

Quattro anni. Sono passati quattro anni dal terremoto che, la notte tra il 5 e il 6 aprile 2009 alle 3.32, ha distrutto L’Aquila, provocando 309 morti e 1.600 feriti. Quattro anni durante i quali sarebbe esagerato dire che non è stato fatto nulla. Perché circa 48mila aquilani sono rientrati nelle case meno danneggiate, in periferia e nelle piccole frazioni tanti cantieri sono stati avviati e parecchi anche chiusi. Ma è un’amara e inaccettabile verità che il cuore della città, la famigerata zona rossa, versi nelle stesse identiche condizioni di quattro anni fa. Anzi, peggio. Perché alla distruzione del sisma si sono aggiunte le ferite dell’abbandono e dell’incuria. Ciò che non era crollato allora, lo sta facendo adesso, tra vento, neve, pioggia, infiltrazioni, umidità e marciume. Tanto che, girando per le vie del centro storico, sembra di trovarsi sul set di una puntata del programma di Focus “La Terra dopo l’uomo”, un cimitero silenzioso e spettrale con la natura che si sta riappropriando delle strutture umane: l’erba ricopre l’acciottolato, le piante crescono sui muri dei palazzi, i cani randagi passeggiano indisturbati. Incredibilmente, l’unico edificio del centro in perfette condizioni è - sarà solo un caso? - la nuova sede regionale dell’Agenzia delle Entrate, a due passi dalle rovine del Teatro Comunale, della chiesa di San Bernardino e del Castello Cinquecentesco.
INCERTEZZE E RITARDI
Incertezze burocratiche e normative, ritardi e complicazioni, soldi stanziati ma non erogati, un sindaco del Pd, da poco tornato a lavorare part-time in ospedale perché deve «pensare alla pensione» (nonostante abbia alle spalle due legislature da parlamentare), capace solo di litigare (con il governo di centrodestra, con la Protezione civile di Bertolaso e Gabrielli, con i vari commissari, con il governatore dell’Abruzzo Chiodi, con le strutture tecniche...), di fare annunci a vuoto e promesse non mantenute, di minacciare (bombe e molotov per tutti, la rimozione del tricolore dagli uffici pubblici, la cacciata del prefetto, addirittura - non ridete - la secessione dall’Italia!) e di farsi smentire, qualche giorno fa, in tempo reale, persino dal suo «caro amico Fabrizio» Barca («Per la ricostruzione bastano cinque anni», il proclama; «Ce ne vorranno almeno otto o dieci», la replica del ministro), hanno portato a questo disastro.
Ora, mentre la popolazione scala le classifiche nazionali di depressione e di consumo di farmaci e chi può se ne va a vivere lontano (ben 3.500 persone nell’ultimo anno), il Consiglio comunale ha finalmente approvato un crono-programma che detta tempi e risorse (servono almeno altri 7 miliardi di euro), ma non c’è alcuna certezza sulla copertura finanziaria, anche perché tutto si basa sull’ipotesi che possa essere reintrodotta quella Cassa depositi e prestiti su cui il ministro per la Coesione territoriale ha invece messo una pietra sopra.
«SIAMO PERIFERIA»
E i precedenti, del resto, destano preoccupazione. In Emilia sono già arrivati 6 miliardi grazie a meccanismi più snelli, qui siamo ancora fermi a 5,2 miliardi per la ricostruzione strutturale (tutti dati dal governo Berlusconi, Monti non ha tirato fuori nemmeno un centesimo), senza considerare però quelli spesi, bene, per l’emergenza e, male, per inutili puntellamenti (uno scandalo sotto gli occhi di chiunque, tranne che della Procura), Così, diventa difficile contestare il pessimismo del chirurgo Vincenzo Vittorini, sceso in politica dopo aver perso nel terremoto moglie e figlia: «Non c’è trasparenza e non si dice la verità: a oggi, non sappiamo se e quando si potrà ricostruire L’Aquila». Forse, non resta che affidarsi a Papa Francesco, come ha invitato a fare l’arcivescovo dell’Aquila monsignor Giuseppe Molinari in una polemica intervista a Radio Vaticana contro l’inerzia dei politici: «Lo sentiamo nostro alleato. Il suo messaggio richiama l’attenzione di tutti sugli ultimi, sulle periferie del mondo e dell’esistenza, e noi ci sentiamo periferia, il sisma ci ha fatto diventare ancora più periferia. Però, non perdiamo la speranza».