Mario Baudino, La Stampa 7/4/2013, 7 aprile 2013
REGIO, IL CAPOLAVORO DEL GENIO BEFFARDO
Il «suo» Regio venne inaugurato il 10 aprile 1973, appena in tempo perché Carlo Mollino vedesse finalmente compiuta l’opera che lo aveva assorbito per anni, tra progettazioni e battaglie. Il grande architetto morì il 27 agosto, a 68 anni, forse non del tutto pacificato con una città che gli aveva già distrutto alcune delle realizzazioni più importanti. Per certi versi era stato un corpo estraneo, con il suo spirito surrealista, la vocazione trasgressiva, e soprattutto nella prima fase della vita assai provocatoria, un Des Esseintes vestito alla Marinetti, un Mallarmé aviatore e pilota da corsa, un creatore di mobili unici e preziosissimi che amava inventare avveniristici chalet fra la neve e maliziosi boudoir, e che si dedicava con egual passione allo sci o alle fotografie languidamente sensuali. Dal futurismo alla Polaroid, Mollino resta incontenibile e indefinibile. Sempre un po’ eccessivo per la città fordista in cui era nato e cresciuto, insofferente sia alla caserma sia alla fabbrica, si era trovato a giocarsi l’impresa più ambiziosa proprio all’apice della fama, già attorniato da un consenso internazionale.
La ricostruzione del Regio era da tempo una partita a scacchi molto complicata. Dopo l’incendio del 1936, subito si era proceduto a un concorso, bandito nel ’37 e vinto dagli architetti Aldo Morbelli e Robaldo Morozzo della Rocca. La guerra aveva allungato i tempi, e nonostante una trionfale posa della prima pietra (nel ’62) non se ne era fatto niente. Nel ’65 l’incarico passò a Mollino e a una squadra di professionisti di prim’ordine. I lavori ebbero finalmente inizio nel ’67, e durarono sei anni. Ci fu da combattere; Mollino non si tirava certo indietro. Ricorda lo storico Carlo Olmo, che non solo lo ha molto studiato ma è anche un artefice della riscoperta a partire dal nuovo secolo, che il grande architetto appartiene in fondo a una Torino minoritaria ma con un ruolo e una socialità importante.
Professionalmente nasce in opposizione al padre, uno dei grandi costruttori di inizio Novecento, severo e ingegneristico, che lo legava al tecnigrafo proprio come si dice di Vittorio Alfieri alla sedia: ma non per metafora, con corde vere. Così si divertiva: disegnava un’auto a siluro e correva a Le Mans, santificava artisticamente il modo delle ballerine ma disegnava anche mobili straordinari che ora vanno all’asta per cifre esorbitanti («Due milioni di euro per un comò mi sono sembrati uno scandalo», ricorda ancora Olmo). Quando il padre muore - nel ’54 - il non più giovanissimo architetto, consumata l’«uccisione» simbolica, diventa quel che è.
Ora non provoca più, costruisce con una genialità pari solo all’ossessione per i particolari e l’esattezza. Il Regio è il punto d’arrivo d’un percorso cominciato comunque molto presto, con la sede della Società Ippica, la «Cavallerizza» di corso Massimo D’Azeglio demolita negli anni Sessanta - non senza suo gran dispiacere - per far posto al tozzo edificio di un nuovo, e peraltro ottimo, liceo classico; e proseguito con realizzazioni sempre stupefacenti, non tutte all’altezza della Sala Lutrario o della Casa del Sole a Cervinia. «La Camera di Commercio è sicuramente orrenda - dice Carlo Olmo -. Il Regio è bellissimo». Il suo capolavoro? «Un capolavoro del Novecento».
Per certi versi ricorda i suoi mobili famosi, come la libreria realizzata per l’editore Lattes (ora alla Gam di Torino), che regge fino a dieci quintali di libri, anche se lo spessore massimo degli elementi non supera i due centimetri e mezzo. Così per il Regio, ispirato alla forza e alla purezza dell’uovo (che Mollino amava esibire a mo’ d’esempio quando doveva illustrare il progetto, fieramente avversato da una parte della città). Era l’uovo di Colombo: una struttura basata sullo stesso principio per cui il guscio, benché sottilissimo, non si rompe.
Non era un’idea estemporanea, un brillante colpo di genio. «Visitò e fece visitare tutti i più importanti teatri di recente realizzazione, negli Stati Uniti e in Europa; mentre progettava il Regio organizzava viaggi praticamente dovunque», racconta Olmo, che nel 2007 ha curato una decisiva mostra all’Archivio di Stato torinese. «La scelta di un teatro con una sola fila di palchi stava prendendo piede nel Nord Europa. Lui, come accade ai geni, perfezionò in modo insuperabile i modelli che si stavano sperimentando». Fece anche una scelta che apparve antieconomica, perché tradizionalmente i palchi erano una fonte di guadagni, posto che venivano affittati o venduti. Una scelta, «democratica», senza tuttavia privarsi nel foyer dell’antico gusto beffardo e aristocratico: creando ad esempio qualche prospettiva maliziosa per cui se una signora passeggia in un certo posto in abito da sera, può accaderle di rivelare a grande distanza quel che in teoria ha deciso di nascondere. Forse è una leggenda, forse è vero, chissà. Anche l’aneddotica ha un suo peso. E il Mollino delle polaroid è sempre in agguato.