Mattia Feltri, La Stampa 7/4/2013, 7 aprile 2013
UNO SPETTRO SI AGGIRA PER LA CASILINA: IL COMUNISMO
Il comunismo riparte dalla Casilina, e non sembri offensivo. In una saletta cinematografica, una cosetta da meno di trecento posti fra palazzoni e cavalcavia che evocano proletariato, si sono radunati a pugno in alto quelli ci credono ancora. Non li si chiami reduci: l’offesa è sanguinosa. Sono il nuovo, come dice Marco Rizzo, segretario dei Comunisti sinistra popolare - Partito comunista che presto conterrà il nome alle due ultime leggendarie parole. Sono lì i compagni di Russia, di Ucraina, di Francia, di Spagna, di Grecia, convenuti in un incontro che si chiama Internazionale , uno dei mille accenni alla gloriosa e sanguinosa vicenda novecentesca. Ma non c’è da attendersi un indugiare fieristico alla nostalgia, non ci sono vaschette variopinte di spillette, non scaffali di t-shirt del rivoluzionarismo sudamericano; l’obiettivo, effettivamente ambiziosetto, non ammette fronzoli: uscire dalla Nato, uscire dall’Ue, uscire dall’euro. E per raggiungerlo è necessario raccontarsi bene in faccia a quale storia si crede e da quale si viene: una storia che comprende in pieno quella della Rivoluzione d’Ottobre e dell’Unione sovietica. Nientemeno. Ancora oggi. Perché il problema, spiega Rizzo prima dei lavori pomeridiani (seguiti a un comitato centrale mattutino, perché il rimando irrinunciabile ai bei tempi c’è ed è di natura procedurale e lessicale) non fu «il fallimento del comunismo, che non fallì, ma il fallimento della sua revisione, cominciata da Krushev». E dunque Giuseppe Stalin, i gulag, la Lubianka e così via furono mali necessari in un paese di giovane rivoluzione, assediato prima dalle potenze mondiali e poi dal nazismo. Il comunismo è giovane, decrepito è il capitalismo che ha secoli di vita ed elenchi di vittime ben nutriti.
Ecco, le premesse sono queste. Il resto è conseguenza. E saranno proprio le parole d’ordine teoricamente più muffite a infiammare la piccola platea: composta, attenta, non giovanissima ma c’erano pure ragazzi, soltanto qua e là caricaturali in qualche berretto alla Lenin, in qualche baffone staliniano (i più agée), in qualche mise guevarista. Quelle rare romanticherie sono nulla a paragone della battaglia del popolo nordcoreano, di cui sarebbe atteso l’ambasciatore. Macché, la guerra incipiente - naturalmente voluta dall’imperialismo mondiale e appoggiata dalla stampa venduta e maledetta (unico punto di contatto col grillismo, considerato strumento del capitale) - lo costringe al lavoro. Ma manda un saluto commosso. «Quel popolo ha un fucile col tappo», dice Rizzo. Perché qui la convinzione incrollabile è che il problema siano le provocazioni della Corea del Sud e degli Stati Uniti, interessati a incenerire uno dei pochi paradisi rimasti del socialismo reale.
Anche questi venti bellici ripropongono l’urgenza dell’antica battaglia. A dare la linea basterebbe, in effetti, il primo intervento, quello di Tamila Yabeova, presidente dell’ Unione dei comunisti ucraini . La necessità ultima - dice - è di affrontare la crisi, così simile a quella che portò alla Prima guerra mondiale, con la dittatura del proletariato. Basta parlamentarismo. Basta mediazione. Basta con i numerosi partiti comunisti (sedicenti, sottintende) i quali non si riconoscono più nella prospettiva rivoluzionaria e ormai vivono nell’illusione del potere liberatorio delle schede elettorali. «La realtà è che nessuno ha stabilito quali sono i limiti della prospettiva rivoluzionaria», dice la Yabeova. Andiamo a rivederli noi, dice. Spostiamoli un po’ più in là. Costi quel che costi. Arrivano i primi boati di un pubblico misurato perlomeno negli atteggiamenti. Però ora la gente vibra, si alza, ondeggia, saltella, urla, si infuoca, alza il pugno. Succederà qualche altra volta, nel corso del pomeriggio. Per esempio quando il vicesegretario del partito comunista operaio russo, Alexander Cherepanov, i riformisti li chiama collaborazionisti, i borghesi li chiama negazionisti. È una visione irrimediabile della società, il solito meccanismo che non può che condurre alla denuncia del nemico del popolo, con le ovvie ripercussioni. E poi col capitalismo (lo dice anche Carmelo Suarez, segretario del Partito comunista dei popoli di Spagna ) non si discute nemmeno più, figurarsi se ci si tratta. Le democrazie sono marce, dicono: non ci serve il vostro voto, ci servono le vostre teste. Qui sono verità rivelate che implodono nella sala, divampano anche nei volti teneri delle ragazzine, ora in piedi, col solito pugno mentre intonano l’Internazionale.