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 2013  aprile 07 Domenica calendario

LA NUOVA LEGGE CHE SERVE A CHI DIVORZIA

La Cassazione ha pronunciato nei giorni scorsi una sentenza che ha posto fine ad un contenzioso fra coniugi durato 17 anni! La convivenza matrimoniale è durata invece solo un anno e mezzo.

Una domanda viene spontanea: come è possibile? Come può una convivenza tanto breve dare luogo a una lite così lunga? La vicenda è in realtà una perfetta rappresentazione della iniquità delle regole relative alla crisi della famiglia e dell’inefficienza del processo in cui queste regole vengono applicate.

I fatti, innanzitutto. Il marito è un mercante d’arte. La moglie è un avvocato. Si sono sposati il 25 luglio 1993: proprio alla vigilia delle vacanze, forse per non sottrarre tempo al lavoro di entrambi. Nel febbraio del 1995 gli sposi hanno già compreso di non essere fatti l’uno per l’altro e sono davanti al giudice per la separazione. La sentenza precisa che dal matrimonio non sono nati figli. Non ci sono quindi particolari problemi da risolvere, tanto che il 10 gennaio 1996 il tribunale pronuncia una separazione consensuale: i coniugi hanno entrambi un lavoro e andranno dunque ciascuno per la propria strada. Ma la legge impone di attendere tre anni prima del divorzio. Il marito quindi chiede il divorzio nel 1998: dovrebbe trattarsi di una semplice conferma delle condizioni della separazione. Le cose non vanno però come previsto e inizia una causa destinata a durare altri 15 anni.

La moglie infatti sa che la nostra legge sul divorzio le consente di ottenere un assegno mensile semplicemente dimostrando di essere meno ricca del marito. Sa che, al fine di ottenere riconosciuto questo diritto, non ha rilievo il fatto che lei stessa ha comunque un ottimo titolo di studio e un lavoro, e neppure il fatto che la vita matrimoniale sia durata poco più di un anno, e ancora che non vi siano figli da accudire costringendola a sacrificare il proprio futuro professionale. In una parola, non ha rilievo il fatto che il matrimonio sia stata una brevissima parentesi che ha lasciato comunque liberi entrambi gli sposi di perseguire le rispettive ambizioni. La moglie dunque fa valere questo suo diritto e chiede al giudice del divorzio di riconoscerle un assegno. Ottiene dal tribunale poco più di 500 euro al mese. Senza conoscere gli atti del giudizio è francamente difficile capire come sia stato possibile impiegare fino alla fine del 2006 per giungere alla sentenza di primo grado (quasi nove anni!). Il marito ricorre in appello. La sentenza di secondo grado viene pronunciata tre anni dopo: l’assegno viene dimezzato, ma la corte prevede comunque la rivalutazione monetaria a partire dal 1998. Oggi dunque l’assegno mensile è di circa 350 euro.

Il marito non si dà per vinto e ricorre in Cassazione. Pensa che un assegno di 350 al mese per un solo anno di vita assieme, mentre la moglie ha continuato a lavorare, sia una rendita parassitaria ingiustificata. La Cassazione ha impiegato altri quattro anni per pronunciare la sentenza definitiva. Il giudizio d’appello viene confermato: la legge non consente di negare al coniuge più debole l’assegno di divorzio per il solo fatto che il matrimonio è durato molto poco e non vi sono stati particolari sacrifici a favore delle esigenze familiari.

Ebbene, è una legge che va cambiata. È stata scritta nel 1970 (appena ritoccata nel 1987). Da allora il mondo è cambiato. In tutta Europa i diritti che un coniuge matura al momento del divorzio sono proporzionali ai sacrifici fatti a favore delle esigenze familiari e non sono rendite assistenziali talvolta ingiustificate. Forse il nuovo Parlamento potrebbe occuparsi di questo problema, ma i tempi del legislatore non sono più rapidi di quelli della giustizia.