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 2013  marzo 26 Martedì calendario

CELINE E IL SUO GATTACCIO, DUE RANDAGI DA ROMANZO

Bébert era un impo­nente gatto tigrato di razza europea, un “gatto di grondaia”, cioè randagio. Un tipico monel­lo parigino venuto alla luce in campagna, poi per privilegio di adozione imborghesitosi tanto da schifare i topi, almeno fino a che ci furono Leberwurst e sar­dine da mangiare... Un gattac­cio curioso, intrepido, scorbuti­co, perspicace. Un tipo pulito. Fedele al proprio amico e salva­tore. Più di un etologo sarebbe pronto a sostenere che dal gat­to, o dal cane, si può capire mol­to del padrone. Il padrone di Bébert, che lo fe­ce di­ventare uno dei gatti più ce­lebri della letteratura, era Louis-Ferdinand Céline, un tipaccio, burbero, intrattabile, antisemi­ta, fedele solo a se stesso, trasan­dato ma ossessionato dall’igie­ne, tanto da dedicare la propria tesi di laurea al dottor Semmelweis, che consiglian­do semplicemente ai propri col­leghi di lavarsi le mani prima di entrare in sala parto, cambiò la storia della medicina.
Il gatto come «modello», o specchio, o figura ideale del­l’universo narrativo del pro­prio padrone? Miao. Negli anni Settanta l’editore francese Grasset chiese a Frédéric Vitoux, critico, roman­ziere, accademico di Francia e attento studioso - in tempi so­spettissimi- di Céline, di scrive­re una biografia dello scrittore del Viaggio. Vitoux non aveva né tempo, né voglia, né il corag­gio per un’avventura del gene­re. E rilanciò, scherzosamente, proponendo la biografia del suo gatto, che accompagnò Céline per parecchi anni e molti romanzi. L’editore Grasset, che non scherzava mai, gli com­missionò il libro, che uscì nel 1976 in Francia e oggi, per la pri­ma volta, in Italia: Bébert. Il gat­to di Louis-Ferdinand Céline (La Vita Felice, pagg. 172, euro 12). Leggendo la vita del felino eroico e devoto, si rilegge quel­la dello scrittore innovatore e nichilista. Insieme, randagi en­trambi, attraversarono la Fran­cia collaborazionista, la Germa­nia in fiamme e la Danimarca ipocrita.
Bébert, che ancora non si chiamava così, nacque attorno alla metà degli anni Trenta, nel­la regione parigina, abbando­nato, poi affidato alla Società protettrice degli Animali e quin­di consegnato ai grandi magaz­zini della Samaritaine. Qui, nel ’35, lo acquistò l’attore cinematografico Robert Le Vigan, che aveva appena finito di girare il film Golgotha , nella parte del Nazareno, per re­galarlo alla sua nuova amante, una giovane comparsa al­gerina, Tinou. Anni bui, gatteschi e vaga­bondi nella Mont­martre della guer­ra, fino al ’42. Do­po la rottura tra Le Vigan e Ti­nou, abbando­nato a se stes­so, il gattone viene rac­colto e bat­tezzato Béberte da Lucet­te Almansor, bal­lerina, e dal marito, il dot­tor Louis-Ferdinand Destou­ches, che è già Céline. Colui che sarà il più grande e il più odiato scrittore di Francia.
Fino al giugno del ’44 sono giorni sonnolenti e d’attesa, di lezioni di danza, di scrittura e passeggiate notturne. Poi, po­co prima dello sbarco in Nor­mandia, la decisione: si fugge in Danimarca, dove Céline pri­ma della guerra ha messo da parte un po’ di denaro. In quel periodo riceve due righe da Paul Léautaud, andate perdute in un incendio, ma in cui dice così: «Lei, caro Louis-Ferdi­nand, sarà senza dubbio liqui­dato alla Liberazione, e se l’è cercata. Non verserò neppure una lacrima, può morire in pa­ce. Però sappia che sono pron­to a prendere con me Bébert, il solo di cui mi importi». Importa di più a Céline e Lu­cette, che lo trascinano con lo­ro nell’apocalisse, sui treni blin­dati e sotto piogge di fuoco: viaggerà den­tro uno zaino per mez­za Europa. «Per 18 giorni e 18 notti non si è mosso, non ha fatto un solo miao. Si rendeva conto della tra­gedia. Abbia­mo cambiato treno 27 vol­te. Tutto per­duto e bruciato per strada, tranne il gatto. Ci ha accompagnato per 35 chilome­tri a piedi, da un eser­cito all’al­tro, sotto dei fuochi peggio che nel ’17».La let­tura della Trilo­gia tedesca -Da un castello all’al­tro, Nord e Rigo­don ­ci permette di seguire i tre fuggiti­vi fino all’arrivo in Danimarca, marzo 1945. Un’epopea da Baden-Baden a Sig­maringen a Copenagen, tra ufficia­li tedeschi, francesi emigrati, molliche di pa­ne, ex notabili di Vichy, luride pensio­ni, comizi di Leon Degrelle e arresti.
Nel ’51, dopo un intervento chi­rurgico ( Bé­bert ha un can­cro) e una lunga carce­razione (Céline è un collaborazio­nista), i due ran­dagi, con la dol­ce Lucette, torna­no a casa, in Fran­cia. Bébert muore di consunzione al­l’inizio del ’52. Céli­ne colpito da emorragia cerebrale e nell’in­differenza generale, nel giugno1961. Bébert - scrive il suo biografo - smaschera Céline. «Denun­cia le sue menzogne e sottoli­nea le sue invenzioni». C’è una fotografia, del 1950: un languido Bébert sulle ginoc­chia di un Céline sognatore. Due proscritti. Ma sembrano fe­lici.