Antonio D’Orrico, Corriere della Sera 6/4/2013, 6 aprile 2013
SAVIANO, ORAZIONE SULLA COCA
Quando era piccolo, Roberto Saviano mandò dei racconti da leggere a Goffredo Fofi. Erano di stile surreale, onirico, alla Tommaso Landolfi, uno degli scrittori più originali e misteriosi che l’Italia abbia avuto. Fofi gli rispose di lasciar perdere il gotico ciociaro risciacquato in Arno di Landolfi e di aprire la finestra della sua stanza e scrivere di quello che vedeva affacciandosi. Saviano lo prese in parola e si guardò intorno. Così nacque Gomorra che ormai non è più un libro, è un brand e ha marchiato a fuoco l’autore e la sua vita nei modi che sappiamo (successo in tutto il mondo, minacce di morte dei boss protagonisti del racconto di Saviano, conseguente assegnazione di una scorta fissa a quest’ultimo, costretto, per il suo bene, a un’esistenza blindata 24 ore su 24).
Ora qui, però, vorrei parlare di Roberto Saviano senza considerarne l’indotto, le mille derivazioni prodotte dal fenomeno Gomorra. Vorrei parlare, semplicemente, di che cos’è e di com’è il suo nuovo libro, ZeroZeroZero, una storia mondiale della cocaina appena pubblicata da Feltrinelli sette anni dopo quel clamoroso esordio. Ma mentre lo dico un dubbio mi attraversa la mente: si può parlare di Roberto Saviano a prescindere dal suo indotto? Proviamo.
Tecnicamente parlando ZeroZeroZero è un The complete book, un genere classico dell’editoria anglosassone (tipo The complete book of labrador, The complete book of Jack the Ripper), un libro esaustivo su un personaggio o su un argomento. Saviano ha scelto di scrivere il suo complete sulla cocaina (da come la si ottiene a come la si smercia, all’effetto che fa) perché si è convinto di un paio di cose. Che sono le seguenti.
1) «Non esiste mercato al mondo che renda più di quello della cocaina. Non esiste investimento finanziario al mondo che frutti come investire in cocaina». Da cui discende il corollario A: «Se avessi investito mille euro in azioni Apple all’inizio del 2012, ora ne avresti milleseicentosettanta. Non male. Ma se avessi investito mille euro in coca all’inizio del 2012, ora ne avresti centottantaduemila: cento volte di più che investendo nel titolo azionario record dell’anno!».
2) «Ciò che viviamo oggi, l’economia che regola le nostre vite, le nostre scelte, è determinato più da quello che Félix Gallardo "El Padrino" e Pablo Escobar "El Mágico" decisero e fecero negli anni Ottanta che da ciò che decisero e fecero Reagan e Gorbaciov. O almeno io la penso così». Da cui discende il corollario B: «Stare dentro ai traffici della polvere è l’unica prospettiva che mi abbia permesso di capire le cose fino in fondo. Guardare la debolezza umana, la fisiologia del potere, la fragilità dei rapporti, l’inconsistenza dei legami, la forza immane del denaro e della ferocia. L’assoluta impotenza di tutti gli insegnamenti volti alla bellezza e alla giustizia di cui mi sono nutrito».
Perciò, conclude Saviano, quasi scusandosi, mi sono ridotto a scrivere di morti e di sparatorie («di chiaviche», come ama dire lui stesso a sottolineare la viltà, la miserabilità delle sue storie e dei loro protagonisti), perché questo mi permette di capire il mondo, di sapere la verità, come è compito di uno scrittore.
Se ZeroZeroZero fosse tutto qui sarebbe un saggio sull’economia, sulla finanza e, in una parola, sul potere. Ma, fortunatamente, non è solo questo. La verità del libro sta altrove e, precisamente, nel discorso (ma «orazione» sarebbe il termine più calzante) che un vecchio boss calabrese, un uomo d’onore, fece, non molto tempo fa a New York, a un pubblico di giovani criminali (di nazionalità assortite: albanesi, chicanos…). A Saviano capita di ascoltare l’intervento del vecchio boss (che parla in un curioso impasto linguistico di inglese, spagnolo, italiano e dialetto calabrese). L’uomo spiega che cos’è un capo e come funziona la mafia. E sostiene che chi delinque non è peggiore dei grandi industriali, dei politici, dei rappresentanti del potere legale e ufficiale. Dice che si tratta di uno scontro di visioni diverse e che i criminali hanno dalla loro il fatto di essere coraggiosi, di giocarsi davvero il tutto per tutto. E di non nascondersi dietro alibi di comodo. Afferma l’uomo d’onore: «Le cazzate sul mondo migliore lasciamole agli idioti». Non si comanda per il bene, per la giustizia, per la libertà: «Queste sono cose da fimmine, lasciamole ai ricchi, agli idioti. Chi comanda, comanda. Punto e basta».
La vita è sempre una malavita. «Scetateve guagliune»...
Saviano resta impressionato dall’orazione. Gli è successo in altre occasioni di sentire discorsi di filosofia morale mafiosa. Questo è diverso, è una lezione «su come si sta al mondo», su come si vive e non su come si fa il mafioso. La concione del boss appare a Saviano «come un addestramento dell’anima». Lo scrittore ci vede qualcosa di kantiano: «Era una critica della ragion pratica mafiosa». E non può che concludere definendo i boss italiani «gli ultimi calvinisti d’Occidente».
C’è un nodo non sciolto in Saviano. Se è mi permesso fare un giro sull’ottovolante della psicoanalisi, penso che si tratti di un senso di colpa. I criminali lo affascinano. Lo riconosce anche: «Tutti i grandi leader criminali hanno una cosa in comune: la volontà di costruirsi un’aura di fascino. La volontà di ammaliare, di sedurre. Poco importa se l’obiettivo è una donna da portarsi a letto o uno spacciatore rivale da far fuori convincendo i tuoi compari che quel bastardo se lo merita» (o, aggiungerei, uno scrittore da cui farsi raccontare). E, scrivendo di Félix Gallardo, detto «El Padrino», di Pablo Escobar, detto «El Mágico», di Osiel Cárdenas Guillén, detto «El Mata Amigos» (l’Ammazzamici), i grandi narcotrafficanti protagonisti del suo libro, Saviano soddisfa e, contemporaneamente, condanna la sua attrazione fatale. Così procedendo ne resta prigioniero. Per liberarsi dovrebbe fare come il grande Don Winslow (che racconta da sempre e impareggiabilmente la gigantesca connection messicana del narcotraffico), dovrebbe romanzarla decisamente, dovrebbe shakespeareggiarla con grandeur elisabettiana, dovrebbe tragediarla (per usare un termine amatissimo dai mafiosi), ma anche commedializzarla.
Saviano lo fa in una sola scena di Zero ZeroZero ed è quando racconta del boss calabrese di San Luca Francesco Strangio, detto Ciccio Boutique. Un giorno gli raccontarono che i narco avevano tagliato le mani a uno che aveva rubato, Ciccio Boutique non ce la fece più e sbottò: «Mamma mia, noi siamo flessibili su queste cose. Ma quando è successo un fatto del genere nelle nostre zone, mai. Piuttosto una fucilata. Ma non quelle torture».
Ciccio Boutique sarà pure una chiavica, ma uno scrittore deve sapere che anche le chiaviche possono avere un risvolto umano.