Sergio Romano, la Lettura (Corriere della Sera) 07/04/2013, 7 aprile 2013
POPULISTI PER PAURA DEL NUOVO
Uno studioso del fenomeno (Ludovico Incisa di Camerana nel Dizionario di politica a cura di Bobbio, Matteucci e Pasquino) sostiene che il populismo è soprattutto una «sindrome», vale a dire uno stato d’animo caratterizzato da sintomi, percezioni, emozioni. Non esiste una ideologia del populismo, non esiste un «manifesto dei populisti», non esistono programmi organici per un futuro populista. La sindrome è fondata su due convinzioni: che il popolo sia depositario della verità e che sia, al tempo stesso, vittima di raggiri, inganni, persecuzioni. Sempre secondo Incisa, il populismo è una religione neopagana in cui il Popolo è Dio e adora se stesso.
Ma accanto al popolo-Dio vi è Satana che cerca di sfruttarne le virtù e di usarle per i suoi fini. Nella sacre rappresentazioni populiste Satana veste abiti diversi. Può essere, a seconda delle circostanze, lo Stato dei padroni e dei politicanti, la grande finanza, il complesso militare-industriale, i «savi di Sion», la massoneria, i «poteri forti». Generalmente il populismo sonnecchia docilmente, salvo risvegliarsi per brevi periodi nelle chiacchiere delle osterie, dei bar e degli stadi. Ma risale impetuosamente alla superficie e assume maggiori proporzioni quando Satana, con gli abiti della modernità, irrompe nella vita sociale, ne modifica gli equilibri, mette in pericolo la condizione economica di alcuni ceti.
Quasi tutti i fenomeni populisti dell’Ottocento e della prima metà del Novecento sono collegati all’industrializzazione e alle sue conseguenze. Vi fu un populismo americano dopo la guerra di Secessione, quando la costruzione delle ferrovie ruppe le enclave rurali e cambiò il volto del Paese. Vi fu un populismo russo (i narodniki, gli slavofili), quando l’impero zarista attraversò, qualche anno dopo, una fase di promettente crescita economica. Vi furono nuovi fenomeni populisti negli Stati Uniti (il nativismo) quando l’impetuoso sviluppo dell’industria americana richiamò masse d’immigrati provenienti soprattutto dalla Cina, dal Giappone, dall’Europa meridionale e orientale. Il «popolo» si sentì minacciato e attribuì subito la responsabilità delle proprie sventure a un nemico: i baroni americani con i denti d’acciaio, i banchieri e gli ebrei arrivati dall’impero zarista dove i pogrom di Kišinëv, Odessa, Kiev e Bialystock furono fenomeni populisti, anche se spesso orchestrati e manipolati dalla polizia e dai servizi segreti. Negli anni seguenti furono in parte populisti, negli Stati Uniti, anche il movimento «America First», contro l’ingresso del Paese in guerra nel 1917, e la «Red Scare», la paura dei rossi, che esplose contro comunisti e anarchici dopo la fine della Grande guerra.
In Europa, negli anni Venti e Trenta, il populismo venne catturato e addomesticato dai partiti e dai movimenti autoritari. Il caso del fascismo è particolarmente interessante. Mentre il dannunzianesimo ha una forte componente estetizzante e la Carta del Carnaro (la costituzione scritta da Alceste De Ambris nel 1920 per la Libera Città di Fiume) è un raffinato testo politico, Mussolini non esita a raccogliere e sfruttare tutti gli umori populisti che circolano nel Paese alla vigilia della Grande guerra e dopo la fine del conflitto. Vi è un ammiccamento populista nella testata del suo giornale («Il Popolo d’Italia») e i suoi primi messaggi politici, agli inizi del 1919, non sono indirizzati a una classe sociale, ma al «popolo delle trincee». Vi è molto populismo, durante il regime, nell’esaltazione della vita rurale, nella battaglia del grano, nei raduni «oceanici» di piazza Venezia, nei dialoghi con la folla, nella denuncia della plutocrazia «giudaica», nelle grandi iniziative popolari come quella di Italo Balbo per il trasferimento di trentamila coloni italiani in Libia.
Ma il fascismo fu un movimento gerarchico, poté contare su una nutrita pattuglia di intellettuali, volle creare lo «Stato nuovo» e realizzò alcune delle sue istituzioni. A differenza del populismo, il fascismo sapeva che il popolo non è un insieme indistinto. È composto da classi sociali, distinte per mestiere e livello di vita, che il leader vuole costringere a collaborare nell’ambito di un sistema corporativo dove tutti, imprenditori e operai, saranno «produttori». Il nazionalsocialismo esaltava la forza del popolo (Volk) e aveva un giornale ufficiale, diretto da Alfred Rosenberg, che si chiamava «Osservatore del Popolo» («Völkischer Beobachter»). Ma il popolo del Führer era una razza armata, pronta a distruggere o asservire i popoli minori, a combattere e a morire per un Reich millenario. Il comunismo, non appena Lenin conquistò il potere, liquidò con la violenza tutti i suoi concorrenti prerivoluzionari, dagli Sr (i Socialisti rivoluzionari) ai menscevichi e agli anarchici. Stalin sapeva che il popolo dei movimenti populisti russi era quello delle campagne e trattò i contadini, quindi, alla stregua di nemici dell’unico popolo riconosciuto dal regime: la classe operaia. Quelli che sopravvissero alle carestie e alle deportazioni divennero impiegati dei kolkhoz. Avevano un retroterra populista anche i regimi di Antonescu in Romania, di Perón in Argentina e di altri caudillos latino-americani sino a Hugo Chávez. Non fu populista invece il franchismo spagnolo, nel quale alcuni alleati del regime (la Chiesa, le forze armate, l’aristocrazia) appartenevano ancora all’Ancien Régime. E non fu populista, per ragioni in parte simili, nemmeno il regime del maresciallo Pétain, creato nella Francia di Vichy dopo la sconfitta del 1940.
Come i populismi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, anche quelli apparsi tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo sono il risultato di un grande processo modernizzatore. La globalizzazione abbatte le frontiere, favorisce la libera circolazione delle merci, del denaro, della forza-lavoro, e mette a dura prova le vecchie economie nazionali. La rivoluzione informatica cambia il modo di lavorare, distrugge vecchi mestieri e ne crea di nuovi, accelera prodigiosamente la diffusione delle idee, dei miti, delle proteste populiste. La rivoluzione sessuale e le applicazioni della biotecnologia cambiano i tradizionali rapporti fra i sessi e rendono possibili nuovi modi di nascere, procreare, morire. Ciascuna di queste innovazioni può essere percepita, a seconda della circostanze, come straordinaria occasione o grande minaccia.
Questa triplice rivoluzione — globalizzazione, informatica, bioetica — colpisce società in cui vi è stata, nei decenni precedenti, una forte promozione sociale. Alle occupazioni più umili, ma pur sempre necessarie, provvedono quindi legioni di nuovi arrivati usciti dai barrios e dalle favelas dell’America Latina, dalle periferie delle città nordafricane, dalle campagne dell’Africa nera, dalle megalopoli asiatiche. Nel giro di due decenni le democrazie industriali dell’Occidente accolgono e assorbono, alla meglio, parecchi milioni di immigrati (nell’Unione Europea più di 33 al 1° gennaio 2011), molto spesso musulmani nel caso dell’Europa, latino-americani in quello degli Stati Uniti. I nuovi arrivati sono spesso visti e rappresentati come un corpo estraneo, una minaccia all’identità e alla tradizione dei «nativi».
Per meglio fare fronte alla concorrenza dei nuovi capitalismi, l’Unione Europea ha realizzato due grandi riforme: il mercato unico e la moneta comune. Ma questa strategia della modernità ha avuto l’effetto di raffigurarla, agli occhi di molti europei, come la sorella gemella della globalizzazione. Le prime rivolte «no global» coincidono spesso con i vertici della World Trade Organization (l’Organizzazione per il commercio mondiale), costituita per diventare, nelle intenzioni dei fondatori, l’Onu dell’economia di mercato. Sono manifestazioni metanazionali ispirate da una ideologia ambientalista. Ma in una fase immediatamente successiva cominciano ad apparire o a risorgere, in quasi tutti i Paesi dell’Ue, partiti che si proclamano «difensori del popolo» contro le minacce dell’economia globale e la tecnocrazia di Bruxelles. Oggi il populismo euroscettico può contare su una galassia di forze politiche che rappresentano insieme più di un quinto dell’opinione pubblica dell’Ue: il Partito austriaco della libertà, diretto a suo tempo da Jörg Haider; il Partito popolare danese fondato nel 1995 da Pia Kiærsgaard: il Partito dei veri finlandesi di Timo Soini; il Fronte nazionale di Marine Le Pen in Francia; Alternative für Deutschland in Germania; il Partito della libertà di Geert Wilders nei Paesi Bassi, il partito Diritto e giustizia dei gemelli Jaroslaw e Lech Kaczynski in Polonia (Lech fu presidente della Repubblica e morì in un incidente aereo nell’aprile del 2010); il Partito per l’indipendenza del Regno Unito di Nigel Farage; i Democratici svedesi di Jimmie Åkesson, il partito Jobbik di Gergely Pongrátz in Ungheria e per certi versi anche Fidesz di Viktor Orbán nello stesso Paese. Alcuni appoggiano il governo e influiscono sulla sua politica, altri sono all’opposizione e non tutti, comunque, sono egualmente populisti o razzisti. Ma tutti pescano i loro voti fra coloro per cui la globalizzazione e l’integrazione europea sono i nuovi «nemici del popolo».
Esiste poi un altro fenomeno che soffia sul fuoco del populismo. La Rete, vale a dire il maggior simbolo della modernità, è ormai il veicolo che più contribuisce a diffondere le paure del «popolo buono» e le sue fantasticherie sulle bugie e i raggiri dei suoi diabolici nemici. Grazie alla Rete sappiamo che l’attacco alle Torri Gemelle è un’operazione montata dalla Cia e che il Pentagono non è mai stato distrutto. Grazie ai blog e alle reti sappiamo che gli incontri annuali di Bilderberg, (un’associazione fondata dal principe Bernardo d’Olanda nel 1954) e quelli della Trilaterale (il club euro-americano-giapponese creato da Giovanni Agnelli, Henry Kissinger e David Rockfeller 40 anni fa) sono le occasioni che permettono ai potenti della Terra di tessere le loro trame e meglio dominare il mondo degli umili, dei perseguitati, dei servi della gleba. Mancano le prove e i documenti, ma la loro assenza, per il populismo della Rete, è la migliore conferma dell’esistenza del Male. Quanto più è difficile trovare le prove di un complotto, tanto più i congiurati dimostrano, agli occhi di una opinione pubblica populista, la loro diabolica abilità.
Esiste anche un populismo degli intellettuali, molto più raffinato e seducente. Ve ne sono tracce (cito a caso) in alcuni testi di Giuseppe Mazzini, nelle poesie di Walt Whitman, negli scritti di Ezra Pound sull’usura, nei romanzi di Knut Hamsun, nell’abbondante letteratura sull’«identità» e le «radici», molto alla moda negli ultimi decenni. E vi è un populismo colto, infine, anche in certi inviti all’indignazione che hanno ultimamente riempito la Puerta del Sol a Madrid, Wall Street a New York e il sagrato della cattedrale di San Paolo a Londra.
Di fronte a queste ondate di rabbia popolare gli Stati democratici sembrano a tutta prima sconcertati e impotenti. Ma negli ultimi anni sono spesso riusciti ad assorbire i contestatori, a «imborghesirli», a inserirli nel sistema. Come usa dire all’inizio di certi film, ogni riferimento al Movimento 5 Stelle, in questo articolo, è puramente casuale.
Sergio Romano