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 2013  aprile 07 Domenica calendario

RUGGERI, TALENTI DA LANCIARE E ULTRA’ DA DOMARE — È

morto ieri alle 3.30 nella sua casa di Bergamo Ivan Ruggeri, presidente dell’Atalanta dal 26 febbraio 1994 al 2008. Era nato a Telgate (Bergamo) il 14 ottobre 1944; il 16 gennaio di cinque anni fa era stato colpito da emorragia cerebrale, mentre si stava sottoponendo ad alcuni esami all’ospedale di Zingonia, perché da tre giorni soffriva di un fortissimo mal di testa. Le sue condizioni erano apparse subito disperate. Lascia la moglie Daniela e i figli Francesca e Alessandro (che ne aveva preso il posto alla guida dell’Atalanta fino al 2010). Industriale nel campo del recupero dei materiali plastici, era entrato nel consiglio dell’Atalanta nel 1977; aveva lasciato da vicepresidente nel 1990 ed era rientrato da presidente nel 1990. Lutto al braccio per tutte le squadre di A. Domani alle 15 a Telgate i funerali. La straziante agonia di Ivan Ruggeri, uno dei migliori presidenti che ha avuto il calcio italiano, si è chiusa ieri nella sua casa di Bergamo. Cinque anni di coma dal quale non si è mai risvegliato, nonostante l’amore, con il quale è stato assistito dalla moglie, dai figli, dagli amici. Ha lottato fino all’ultimo, forse perché la sua grande passione, prima ancora del calcio, era stato il ciclismo, uno sport che non dà spazio a chi non sa soffrire. A sedici anni aveva frequentato la scuola «Fausto Coppi» di Milano ed era riuscito a raccogliere non poche soddisfazioni, come il quarto posto al Giro delle Asturie. Ma a 21 anni, aveva deciso di abbandonare il ciclismo per concentrarsi sul lavoro e da lì era iniziata la sua fortunata avventura nel mondo industriale (recupero di materiali plastici). Nel 1977, era entrato nel consiglio di amministrazione dell’Atalanta, quando aveva acquistato il 19% delle azioni da Nessi. Nell’Atalanta era diventato vicepresidente durante la gestione di Cesare Bortolotti, poi aveva compiuto un passo indietro quando il club era passato a Percassi. A fine 1993, con la squadra in difficoltà, era tornato, acquistando la maggioranza del pacchetto azionario e lì era cominciata la sua vera storia con il club.
Ha detto Mino Favini, il più grande scopritore di talenti calcistici, responsabile del vivaio atalantino (una specie di miniera d’oro): «Era un uomo in apparenza burbero; in realtà era una persona semplice e sensibile, affezionato ai suoi giovani calciatori». Un presidente capace di intuizioni geniali. Era stato lui a promuovere in prima squadra un Prandelli trentaseienne (novembre 1993), sperando in una salvezza impossibile. Per ritornare subito in A, aveva puntato su Mondonico, con il quale aveva un feeling speciale, obiettivo raggiunto e, una volta tornato nel grande giro, si era dedicato al lancio di grandi campioni da Vieri (1995-’96) a Inzaghi (24 gol nel 1996-’97, decimo posto), a Lentini fino a Montolivo. Scivolato in B nel 1998 e fallita l’immediata promozione, aveva affidato nel 1999 la squadra a Giovanni Vavassori, anche lui proveniente dalla «Primavera». E il tecnico aveva saputo costruire un gruppo capace di giocare un calcio veloce, intenso, organizzato, ammirato da tutti (settimo posto del 2001). Eppure, per dare una scossa alla squadra in difficoltà nella primavera 2003, non aveva esitato a esonerare anche Vavassori, cercando una salvezza scappata via soltanto allo spareggio con la Reggina. E più avanti aveva valorizzato altri allenatori da Mandorlini («per me è stato un padre») a Colantuono e Delneri, rigenerato dopo la caduta in B con il Chievo. Fra i tanti meriti, il presidente ha avuto quello di mantenere idee e energie per non smobilitare mai, nemmeno quando l’Atalanta retrocedeva, grazie a bilanci sempre in ordine.
Adesso in molti piangono Ruggeri; lo fa anche chi lo aveva lasciato solo nei momenti più delicati della sua presidenza. Nel 2003, in pieno Catania-gate, aveva evitato di ricorrere al tribunale, accettando la retrocessione, per rispetto dell’istituzione calcistica; nel 2007, mentre si batteva per una più equa distribuzione degli introiti tv, aveva deciso di isolare in maniera definitiva il mondo ultrà. L’11 novembre 2007, dopo la morte di Sandri, gli ultrà bergamaschi aveva devastato lo stadio impedendo l’inizio della partita con il Milan; Ruggeri era stato categorico: «Certa gente non la voglio più vedere allo stadio; chiudo la curva». Era iniziata una battaglia piena di insidie e di amarezze, che lo aveva costretto a girare con la scorta o a restare assediato al ristorante per ore. Ma non aveva mollato di un centimetro. Il 13 gennaio 2008, prima di Atalanta-Roma, i rappresentanti della curva avevano distribuito un volantino con accuse e minacce pesanti. Il presidente l’aveva letto anche lui, in tribuna quando già stava male e aveva capito che sarebbe andato incontro a giorni duri. Il mercoledì successivo l’emorragia cerebrale, che l’ha condannato a cinque anni di vita vegetativa. «Mòla mia crapù», gli avevano scritto gli ultrà. E ancora: «Dio solo sa quante volte ti ho mandato a quel paese. E ho sperato che vendessi l’Atalanta. Adesso sono qui che ti scrivo in lacrime, sperando che tu vinca questa battaglia. Forza presidente, non mollare». Invece Ruggeri è stato costretto a mollare. Suo figlio, Alessandro, con grande coraggio ne aveva voluto raccogliere l’eredità, diventando presidente da fine 2008 fino al 2010, quando la squadra era scivolata in B. È stato lì che aveva capito che era venuto il tempo di lasciare. E che anche suo padre sarebbe stato d’accordo.
Fabio Monti