Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 06 Sabato calendario

IL FUTURO NON ABITA A LAS VEGAS

Cosa fa più male all’architettura contemporanea? La bulimia di attualità, l’ansia di tecnologia, il protagonismo delle archistar o il desiderio di stupire a tutti i costi? Il modello Disneyland, il «bruttissimo museo africano di Tschumi» o quella improbabile emanazione del Guggenheim collocata in un albergo extralusso simil-veneziano di Las Vegas? Il sublime al tempo del contemporaneo, nuovo saggio di Vittorio Gregotti (Einaudi, pp. 240, 18, in libreria da martedì 9 aprile), non vuole fornire risposte definitive ma piuttosto raccogliere «una serie di indizi» sullo stato dell’architettura (ma anche dell’arte in generale), uno stato che l’autore definisce, almeno per quello che riguarda gli ultimi trent’anni, «di accademico immobilismo dell’incessante novità» ovvero una condizione di «cambiamento solo apparente» che di fatto nasconde il vuoto, il nulla.
Tutta colpa di una nuova idea di bellezza contemporanea che non guarda più alla classicità greca, a Leon Battista Alberti, a Kant, a Loos ma piuttosto a un «sublime rappresentato dall’ipertecnologico, dalla liquefazione delle specificità, dall’immensità dell’universo delle nuove comunicazioni». Una bellezza sensazionalistica, alleata più del mercato e del consumismo che non della ragione o del sentimento. Lontanissime sembrano così le città del sublime che diventava architettura: Pienza, Sabbioneta, Chaux o la comunità Shaker di Hankock (ma anche i disegni immaginifici di Sant’Elia e la «maison clarté» di Le Corbusier) hanno così ceduto il posto alle metropoli stile Flash Gordon. Proprio come, tra i maestri dell’arte, Damien Hirst ha sostituito Botticelli e Michelangelo (ma anche un grande trasgressore come Joseph Beuys).
Gregotti individua cinque punti (non certamente positivi) che, per lui, determinano oggi il successo di un progetto: la superficiale novità (giocata su uno strano mix di eccesso e memoria); l’apparenza costosa («il povero ormai non paga più»); l’assenza di ogni integrazione con il contesto urbano circostante (insomma meglio se appare «come ingrandimento di un qualche oggetto di consumo», caffettiera o sedia comprese, che non come un vero frammento di città); il suo valore accertato sul mercato; l’effetto mediatico che può suscitare. «Sono fortunato — scrive — perché credo ancora nei valori di libertà e di giustizia come obbiettivi della parte migliore degli ideali di pensiero del movimento moderno e nell’importanza del ruolo collettivo che la rivoluzione del progetto può proporre in architettura». Invocando la ricerca di una nuova normalità edilizia, una ricchezza (che guardi anche alle esigenze reali della società e degli individui) non più basata sulla semplice esibizione o sull’apparenza ma intesa come molteplicità di idea, di cultura, di iniziative. Una normalità che ponga fine a un momento in cui «i più grandi applausi popolari sembrano essere solo per i bizzarroni e per i demolitori».
L’esaltazione della star singola penalizza d’altra parte anche quell’idea di ricerca e di laboratorio anch’essa «classica» per non dire ormai «tramontata» (nel suo libro Gregotti cita a esempio la bottega rinascimentale dei Bellini) per lasciare il posto all’autoesaltazione. Ma nel saggio vengono messi sotto accusa anche una serie di sintomi collaterali di questa crisi. Come la difficoltà di interpretare gli stessi fenomeni dimostrata da critici e curatori di mostre e Biennali: «alle quali, al di là dell’oggettiva difficoltà di fare capire l’architettura senza i progetti, viene sempre più spesso chiesta una visione positiva della situazione e non un’interpretazione della realtà».
Simbolo eccellente di questa sublime bellezza senza contenuto sono i grattacieli (e il conseguente «grattacielismo»). Ma non solo. Nello stesso cono d’ombra si collocano, per Gregotti, anche i musei fatti per stupire, trasformati in appendici dei bookshop o degli alberghi (come il Guggenheim di Las Vegas), in multisale, in shopping centre, in luoghi di semplice consumo e di acquisto. E proprio per questo destinati a venir immediatamente sacrificati alle ragioni di mercato come è accaduto allo stesso Guggenheim Las Vegas. Non più luoghi di conoscenza ma «teatri delle meraviglie», questi musei sembrano trasformati in monumenti in onore degli stessi progettisti della provvisorietà dei nostri anni, ormai «posseduti dalla smania di dimostrare la loro capacità di prevedere il futuro, un futuro votato alle tecnoscienze, all’universo senza confini delle nuove comunicazioni, alla ragione del denaro».
Una riflessione critica, quella di Gregotti, che invita, con amarezza ma anche con un filo di speranza, a ripensare e ritrovare il senso della classicità, alla luce di una contemporaneità che non sia, però, solo di facciata.
Stefano Bucci