Antonio Polito, Corriere della Sera 7/4/2013, 7 aprile 2013
Il titolo dell’Unità che ha scatenato una lite nel Pd svela, forse inconsapevolmente, il nocciolo della questione
Il titolo dell’Unità che ha scatenato una lite nel Pd svela, forse inconsapevolmente, il nocciolo della questione. Il giornale accusava infatti Renzi di aver detto «No al governo Bersani». Ma che cos’è esattamente il «governo Bersani»? Andrebbe chiarito, perché all’inizio era un accordo con Grillo su otto capitoli di programma; a metà era diventato un tentativo di spaccare il Movimento di Grillo ottenendo il voto di un gruppo di dissidenti; alla fine era la richiesta a Berlusconi — pur senza mai nominarlo — di consentire la nascita di un governo di minoranza; in ogni momento ha presunto un sostegno di Monti che non è mai stato né contrattato né promesso. Nel caso dovesse risorgere dallo stato di crio-conservazione in cui si trova, in quale di queste incarnazioni si presenterebbe per farsi dire di no dal giovane e scalpitante sindaco fiorentino? La verità è che il «governo Bersani» è uscito battuto dalle urne, e il Pd non uscirà dalle sue angosce finché non ne prenderà atto e non affronterà seriamente, come si faceva un tempo, l’analisi del voto. Quel progetto politico si basava infatti sul tentativo di vincere le elezioni con un fronte unito delle sinistre, sperando che il Porcellum facesse il miracolo di trasformare una minoranza in una maggioranza, grazie alla debolezza del fronte opposto. Ma la sinistra da sola in Italia non può vincere perché è da sempre una minoranza troppo piccola. Togliatti e Nenni, che pure non erano Bersani e Vendola, ottennero appena un po’ di più di loro, sfiorando il 31% nel 1948; Berlinguer, che pure era Berlinguer, superò al suo apice il 33%. Le elezioni del 2013 sono state la più sferzante conferma di questa legge della politica italiana, perché anche di fronte a un tracollo della destra l’elettorato ha preferito creare un terzo polo pur di non consegnare il governo alla sinistra. Il gruppo dirigente che si raccoglie intorno a Bersani ha invece letto il voto come il segno di una epocale svolta a sinistra dell’elettorato italiano, che avrebbe premiato Grillo solo perché il Pd era stato troppo timido nel suo pur antico anti-berlusconismo. Non si spiegherebbe altrimenti perché ha prima offerto al Movimento 5 Stelle la testa di Berlusconi (ineleggibilità vent’anni dopo e arresto appena possibile), e perché oggi punti a tornare nella direzione da cui proviene fondendosi con Vendola e affidandosi a Barca. Per questo è importante l’intervista al Corriere con cui ieri Franceschini ha rotto l’unanimismo di facciata nel Pd e il lungo silenzio di quella corrente dei Popolari che un tempo ne rappresentava il centro. Non solo e non tanto perché dice ciò che è ovvio, e cioè che i numeri consentono soltanto un dialogo con Berlusconi (esattamente ciò che ha detto Renzi, ma scommettiamo che oggi l’Unità non lo tratterà allo stesso modo). Ancor più rilevante è che Franceschini interpreti lo stato d’animo del Paese come una disperata richiesta di buon governo cui il Pd non può sottrarsi, combattendo l’estremismo invece di rincorrerlo. Il futuro del Pd è in un sistema bipolare in cui l’avversario lo scelgono gli elettori, non nella supponenza di rappresentare l’unico elettorato moralmente degno. Grillo non è il suo alleato naturale, ma la talpa che gli scava il terreno sotto i piedi. La Rete e le sue minoranze attive non equivalgono al Paese, il quale non premierà chi è più zelante nel dannare il nemico, ma chi è più efficace nel salvare la casa comune. Pd e Pdl sono condannati a ricostruire insieme una democrazia funzionante, o a perire nel rogo del sistema democratico. Il giaguaro non è stato smacchiato e anzi è comparso pure un altro gattone dotato di artigli affilati. Se il Pd è un partito e non una «ditta» la cui ragione sociale è la mera prosecuzione della specie di chi lo dirige, è ora di riconoscere come stanno le cose e di cambiare tattica e strategia, o di cambiare leadership.