Fabio Martini, La Stampa 6/4/2013, 6 aprile 2013
LA PERA TAGLIATA A META’ DI EINAUDI IL COLLE ALL’ EPOCA DELL’ AUSTERITA’
In principio quel Presidente così originale fu circondato da sguardi stupiti. Poi qualcuno dell’entourage sussurrò: «Eccellenza, ma il cappotto...». Enrico De Nicola, dal 1946 primo Presidente della Repubblica italiana, ad un certo punto aveva cominciato ad aggirarsi in pubblico con un soprabito rivoltato. Per nascondere le ferite dell’usura, disseminate lungo il verso «giusto». Provarono a dire al Presidente che forse era meglio aggiustarlo quel cappotto, lui scuoteva la testa e un giorno il paltò fu portato in riparazione da un sarto napoletano, che lo aggiustò gratis. Contro la volontà del Capo dello Stato. La storia del cappotto rivoltato che oggi sembra una favola - risale ad una stagione di stenti collettivi ed appartiene ad un personaggio, come De Nicola, che aveva fatto del rigore la sua cifra proverbiale. Ma non è una storia isolata. In 67 anni di Repubblica, quasi tutti i Presidenti hanno mostrato uno stile pubblico e privato diverso da quello prevalente nel mondo politico, non hanno fatto scuola in Parlamento e neppure nel costume quotidiano degli italiani, anche se naturalmente non tutti i Capi dello Stato si sono uniformati al contegno di Enrico De Nicola.
Curiosamente l’Italia si scelse il suo primo Presidente fuori dal Parlamento. Nel giugno del 1946, nei giorni che seguirono il referendum istituzionale, serviva un Presidente pacificatore e De Nicola, di tendenze monarchiche, fu scelto anche per il suo profilo: già presidente della Camera nell’Italia pre-fascista, De Nicola era un avvocato napoletano privo della barocca teatralità dei suoi colleghi partenopei: «La retorica è il cloroformio delle Corti di Assise», scriverà in un appunto ritrovato nel suo archivio personale. Agiato ma frugale, gentiluomo di vecchio stampo ma anche bizzoso ed imprevedibile. Eletto presidente provvisorio dall’Assemblea costituente, il 2 luglio del 1946 De Nicola approda sulla piazza di Montecitorio in incognito, senza farsi precedere da motociclette, accompagnato da una valigia di cuoio. Gli suggeriscono di insediarsi al Quirinale, ma lui sempre attento a non prevaricare, dice che no, come Presidente provvisorio, non può risiedere in quella che era stata la reggia di monarchi effettivi. Lo mandano ad abitare a palazzo Giustiniani, costruito nel punto più basso e buio di Roma. Un giorno, ad un ministro che era andato a visitarlo, De Nicola confidò: «Ma lei lo sa che ogni mattina al primo visitatore devo chiedere se fuori piove o fa il sole?». Ma il buio non impedisce a De Nicola di annunciare: rinuncio ai 12,5 milioni di lire della «lista civile», l’appannaggio presidenziale. Rinuncia del tutto, non a frazioni di stipendio e impone che quella cifra sia inserita nel bilancio dello Stato. Senza appannaggio, con lo studio legale che risente della sua assenza, De Nicola non vive nell’oro ed è in questo contesto che il Capo dello Stato, in missione, indossa il suo cappotto rivoltato.
Il successore di De Nicola, il piemontese Luigi Einaudi, non è da meno. Per indole non per imitazione. Scelto da De Gasperi, che aveva bisogno della competenza del governatore della Banca d’Italia per uscire dalle sabbie mobili della bancarotta, il cuneese Einaudi (era nato a Carrù nel 1876) nella sua guerra all’inflazione, aveva una specie di fissazione per gli sprechi, al punto da biasimare pure gli incassi crescenti per i biglietti del cinema che toglievano risorse al risparmio privato. Tante delle sue «prediche inutili» caddero nel vuoto, ma anche nel suo settennato era stato univoco lo spartano messaggio di austerità che dal Quirinale arrivava agli italiani. Memorabile la sintesi letteraria che Ennio Flaiano estrasse da un episodio vissuto in prima persona. Durante un incontro al Quirinale con la redazione del «Mondo», Einaudi ad un certo punto chiese a Flaiano se volesse mezza della sua pera. Lo scrittore annuì e venti anni più tardi, nella «Solitudine del satiro», individuò in quel gesto un passaggio d’epoca: con la fine della presidenza Einaudi, per l’Italia sarebbe iniziata la «stagione delle pere indivise».
Effettivamente, finite le asprezze del Dopoguerra, a metà degli anni Cinquanta, anche al Quirinale si allentarono i freni. Giovanni Gronchi, una vocazione da «toscanaccio», non soltanto lasciò correre i pettegolezzi circa la sua vita privata, ma proprio per segnare la distanza dalla stagione austera di Einaudi, promosse impegnativi restauri alla tenuta di San Rossore e a Villa Rosebery. E se le presidenze di Segni, Saragat, Pertini, Scalfaro, Ciampi e Napolitano sono state segnate da stili diversi ma non controversi, c’è un Presidente che ha finito per pagare la sua estroversione: Giovanni Leone. In particolare durante i viaggi all’estero con la moglie Vittoria, ogni tanto il Presidente andava oltre i confini del cerimoniale. Se l’ambiente lo metteva a suo agio, gli piaceva mettersi a cantare e una volta - a Tbilisi nel 1975 - arrivò ad esibirsi come ballerino. Atteggiamenti riprensibili, non da impeachment, sui quali tre anni più tardi, il Pci in grave crisi di consensi, si «appoggiò» per chiedere la testa di Leone. La Dc, anch’essa in crisi, gliela concesse. Passarono molti anni prima che democristiani e comunisti lo ammettessero: Leone era stato un capro espiatorio.