Marco Ferrante, Il Messaggero 6/4/2013, 6 aprile 2013
UN MILIONE DI ITALIANI VIVE DI POLITICA
«C’è chi dice: Jack Abramoff corre troppo, prende sempre le scorciatoie. Io rispondo: se fa la differenza perché io e la mia famiglia possiamo fare una vita comoda senza prendere la metro tutti i giorni, allora è così. Io non permetterò alla mia famiglia di essere schiava, non permetterò al mondo con cui entro in contatto di essere convenzionale».
È il prologo di “Casino Jack” in cui Kevin Spacey interpreta e illustra la essenziale psicologia antropologica del lobbista Abramoff: la militanza politica è un discrimine, chi è dentro è più forte di chi è fuori. E, del resto, l’ispiratore del film, l’autentico Jack Abramoff – esponente della supercasta americana dei public affair, poi condannato per corruzione ed evasione fiscale nel 2006 – era effettivamente molto ben collocato dal lato giusto dello steccato. Sin da quando negli anni 80 era stato uno dei leader giovanili del partito repubblicano. E da quella militanza aveva tratto il grande bagaglio di rapporti utilizzati con molto profitto nella sua attività di mercante di influenze.
Per tutto il ‘900 la politica è stata uno strumento di promozione sociale e di miglioramento delle condizioni di vita personali. Nella grande e democratica America, in concorrenza con le carriere di mercato nell’imprenditoria, nelle professioni, nelle università e nelle corporation. Ma anche – e qui senza altre forme di concorrenza – nei paesi comunisti, dove l’attività politica era praticamente l’unica strada per uscire dal buio delle case comuni e dal tragico realismo dei partiti-società.
In Italia, per tutto il dopoguerra, anche a causa del retaggio storico e culturale, il ruolo della politica non solo come luogo per l’affermazione di ambizioni soggettive, ma anche come via d’uscita da condizioni di partenza insoddisfacenti, è stato un fattore decisivo per il successo mondano dei partiti e – in generale – dei corpi intermedi.
ANTIPOLITICA
Così l’antipolitica che dagli anni ’50 in poi si abbatte a ondate sui partiti, si scontra con un corpaccione plastico, esteso, resistente e molto più costoso di quella simbolica decina di milioni di euro su cui la Presidenza della Camera sta cercando di effettuare i suoi tagli. Secondo uno studio della Uil (luglio 2012), in Italia ci sarebbero almeno un milione e centomila persone che vivono direttamente di politica, pari a poco meno del 5% degli occupati, con un costo per l’erario di circa 25 miliardi di euro. Gli eletti sono circa 145.000, dagli eurodeputati ai consiglieri circoscrizionali. Poi ci sono quasi 70.000 amministratori, revisori e sindaci di società pubbliche o partecipate. Ancora: 40.000 persone lavorano nelle segreterie politiche degli uffici elettivi e quasi 400.000 nei partiti a tutti i livelli. Infine, ci sarebbero oltre 450.000 consulenti delle amministrazioni dello stato, i cui incarichi in quanto di nomina pubblica, alimentano una forma di democrazia di scambio.
La dimensione politica della nostra società non si esaurisce qui. Esistono altri due aggregati su cui – però – non è disponibile una quantificazione. Il primo è costituito da quella parte di apparato statale che comunque svolge una funzione quotidiana in qualche modo riconducibile all’appartenenza politica: dagli assunti nella p.a. come ammortizzatore sociale, fino a dirigenti e impiegati lottizzati nello stato e nelle partecipate. Ovviamente non esistono censimenti in merito.
Il secondo aggregato è quello che rientra nella rappresentanza degli interessi economici: associazioni imprenditoriali, sindacati, associazioni di categoria, consigli, ordini e casse professionali. In conclusione di un lavoro analitico pubblicato nel 2011 da Luiss University Press, “I sistemi di rappresentanza degli interessi economici in Italia”, l’autrice Paola Nicoletti prova a fare una mappa: 18 pagine fitte di sigle. In ordine alfabetico, si va dall’Abi, l’Associazione bancaria italiana, fino alla “Federazione nazionale cooperative consorzi e strutture nazionali e internazionali” dell’Unci, Unione nazionale delle cooperative italiane, organismo che rappresenta le cooperative cattoliche.
CORPI INTERMEDI
Non ci sono dati precisi su quanti siano gli addetti di questo mondo enorme. Si stima che il personale stipendiato da questi organismi sia superiore alle 200.000 persone. Solo per Cgil, Cisl e Uil, tra dipendenti diretti, distacchi della p.a., personale dei Centri assistenza fiscali e dei patronati, si calcola lavorino almeno 40.000 persone. (Ovviamente questa cifra non ha alcuna relazione con i 700.000 delegati sindacali eletti come rappresentanti dei lavoratori). E sarebbero nel complesso almeno 50.000 i dipendenti delle organizzazioni di imprenditori e datori di lavoro, Confindustria, Confartigianato, Confagricoltura, Confcommercio, eccetera, presenti sul territorio.
Per tutte queste persone, il cuore dell’attività quotidiana è, in qualche modo come per Jack Abramoff, la politica, il rapporto con le istituzioni e le leggi. Entrano in dialettica – o in competizione – con i decisori pubblici oppure collaborano in una logica corporativa, che diventerà “concertativa” a partire dagli anni ’90.
Che cosa abbia prodotto questo misto di iper-rappresentanza e di iper-partecipazione è controverso. Di sicuro i corpi intermedi per l’Italia sono stati un elemento di pluralismo e un bacino di selezione di classi dirigenti. Ma anche un grande fattore di conservazione. Basti pensare al peso di una categoria come quella degli avvocati nello sviluppo del nostro ordinamento o alla reazione indignata dei dipendenti della Camera cui Laura Boldrini chiede di limare stipendi pari a cinque volte la media dei dipendenti pubblici. È evidente che lo scontro in atto nella società italiana non riguarda soltanto idee generali, e non è solo un fatto di potere o la condanna all’uso della metropolitana per chi è fuori dallo steccato. Si è aperto un contenzioso radicale tra una società iperpolitica che non riesce a pensare se stessa in un altro modo e una società completamente antipolitica, per giunta in parte esclusa dai benefici del welfare. Non dialogano e non si capiscono. Non riescono a riconoscere l’una un po’ delle ragioni dell’altra, chiuse rispettivamente nell’ingenuità delle pretese di purezza e nell’incapacità di rendersi conto che i tempi cambiano e che il mondo che ha prodotto una tale quantità di mediatori politici e sociali forse non esisterà più.