Concita De Gregorio, la Repubblica 6/4/2013, 6 aprile 2013
IL COLLE DEL POTERE PROIBITO ALLE DONNE
Ridono, sbuffano, fanno l’aria di quelli che gli stai facendo perdere tempo. Poi tornano seri e fanno finta, perché lo capiscono – da qualche parte, nel corpo o nella testa – che non possono mostrarsi insofferenti, non sta bene, e allora dicono cose come: “In fondo le donne non sono adatte al potere. Sono pratiche, invece il potere è un gioco tutto astratto. È obliquo, le donne sono dirette”.
Cioè: si mettono nei loro panni, per così dire, e le liquidano da lì. Parlare oggi, aprile 2013, coi grandi elettori che fra dodici giorni voteranno il prossimo Presidente della Repubblica dell’eventualità che possa essere una donna è un’esperienza di interesse antropologico. Non ci credono: le donne fanno gesti come a dire “sarebbe bello, ma tanto è impossibile”, i vecchi non capiscono la domanda, ti parlano delle mogli e ti raccontano con sguardo sognante di quella volta che donna Vittoria Leone, che tempra, che capelli. I leader e i kingmaker, per altre ragioni in notevole affanno, ti dedicano cinque minuti giusto perché hanno l’occhio ai social network e vedono l’onda che monta in rete. La distanza tra i reduci della politica di un tempo e lo tsunami è insieme millimetrica e abissale: è come un mostro fuori dalla porta chiusa a chiave.
Nel mondo reale, là fuori, gli elettori dicono Emma Bonino, Cancellieri o Severino, Finocchiaro se non fosse che talmente tante volte, troppe volte Anna Finocchiaro ha di buon grado, “come un soldato” — dice sempre — accettato candidature al massacro. Emma Bonino, che sì è una donna pratica come concreto deve essere chi vuol cambiare le cose, dice che “se il posto non te lo prendi da sola finisce che ti cooptano nei consigli di amministrazione, magari, e poi ti chiedono di portare il caffè”. Margherita Boniver, sua sponsor nel ‘99: “Quando Giuliano Amato propose Bonino i capoclasse della politica dissero che era provocatorio, ma si guardarono bene dallo spiegare in cosa consistesse la provocazione. Non potevano”. Nel mondo dietro la porta chiusa — quello dei grandi giochi cifrati e coperti — siamo fermi al ‘46, quasi a settant’anni fa. Non è un’esagerazione, state a sentire.
Nel mese di giugno del ‘46 Guglielmo Giannini propose per il Quirinale una donna come “condanna di un mondo politico incancrenito”. La cancrena, oggi si usa dire il cancro. Lei era Ottavia Penna da Caltagirone, nata baronessina Buscemi. Antifascista, eletta alla Costituente nella città culla della Dc: Mario Scelba se ne lamentò per lettera con Luigi Sturzo.
C’erano 21 donne, 556 uomini in quell’Assemblea. La baronessa da ragazza si aggirava con un coltello, di notte, a tagliare i sacchi di grano che i baroni della sua terra destinavano illegalmente al mercato nero anziché all’ammasso. Altre notti prendeva le carni macellate dalle sue fattorie e le portava agli indigenti. Aveva studiato al Poggio Imperiale, poi a Trinità dei Monti.
Anticomunista, monarchica. Giannini la candidò contro De Nicola, che ebbe l’80 per cento dei voti: gli mancarono quelli del partito repubblicano e i 32 andati ad Ottavia Penna. Dal Giornale di Sicilia del 29 giugno 1946: “Molto commentati i voti che escono dall’urna in favore della deputata qualunquista siciliana. Guglielmo Giannini, con la sigaretta spenta tra le labbra, rientra nell’aula e salito al banco dove siede la candidata del gruppo s’inchina a baciare la mano della signora, per una singolare affermazione di qualunquismo designata alla presidenza”. Una ‘singolare affermazione’ che il leader dell’Uomo qualunque spiegava così: “Una donna colta, intelligente, una sposa, una madre. L’abbiamo scelta per opporla alla tirannia dei tre arbitri della cosiddetta democrazia: costituisce per noi la condanna di un mondo politico incancrenito”.
Superfluo sottolineare i rimandi con la cronaca. Ottavia Penna lasciò la politica delusa “dai compromessi”, sul finire dei suoi anni esprimeva la contrarietà a “questa repubblica” incollando sulle lettere i francobolli a testa in giù.
Si devono aspettare 32 anni perché un’altra donna, la dc Ines Boffardi, prenda un voto per
Quirinale: uno di numero, battute beffarde in aula. E’ il 29 giugno del 1978, non proprio il Medioevo. Primo scrutinio dell’elezione che dopo dieci giorni porterà all’elezione di Pertini. Battute sarcastiche in aula, di nuovo. Pertini: “C’è poco da ridere, onorevoli colleghi. Anche una donna può diventare presidente, lo sapete?”. Già, lo sapete? Pajetta aveva battezzato Boffardi la ‘pasionaria bianca’: decima di undici figli, famiglia operaia, presidente dell’Azione cattolica, due volte sottosegretario con Andreotti con delega alla ‘questione femminile’, ferrea antiabortista e presidente dei consultori di ispirazione cristiana voluti dalla Cei. Voleva la pensione per le casalinghe, la parità di retribuzione, più donne nelle liste europee. “Incontrai una evidente opposizione”, dice, ancora vigile. Una evidente opposizione.
In quell’elezione — Pertini, luglio ‘78 — quattro voti per il Quirinale vanno a Camilla Cederna, la giornalista che aveva appena dato alle stampe “La carriera di un presidente”, libro inchiesta che aveva avuto grande parte nelle dimissioni recentissime di Giovanni Leone. Tre voti a Eleonora Moro, la “dolcissima Noretta” delle lettere dalla prigionia, a un mese e venti giorni dall’assassinio del marito. Camilla Cederna, Eleonora Moro: messaggi in bottiglia, a chi doveva intendere. Punture di spillo.
Nel 1985 passa al primo scrutinio Francesco Cossiga. Nell’urna di vimini ci sono ancora otto voti per Cederna, tre per Tina Anselmi. Classe 1927, staffetta partigiana nella brigata Cesare Battisti, veneta. Prima donna ministro in Italia, nell’Andreotti terzo. Dall’81 all’86 presidente della commissione P2. Anche quei tre voti per la presidente della P2 sono un messaggio: ai massoni, ai golpisti. Un buffetto, un pizzicotto.
Il maggio ‘92, elezione di Scalfaro, è il momento del fuoco breve di Nilde Iotti. 183 voti al primo scrutinio, 245 al terzo. Passa in testa al quarto: 256. Fra il quinto e il senso combatte con Forlani. Scalfaro, che risulterà poi eletto, è a 6 voti. Iotti è di nuovo in testa al settimo scrutinio, 233 voti, e all’ottavo. Poteva sembrare vero. Sparisce al nono, 3 voti e 200 bianche.
È eletto Scalfaro due giorni dopo la strage di Capaci. In quell’elezione presidenziale, nel ‘92, ebbe un voto Sophia Loren ma erano tempi in cui lo star system era considerato inessenziale: quel voto non risulta agli atti, fu conteggiato come nullo.
Nel 1999, il 13 maggio, Ciampi passa al primo scrutinio. Rosa Russo Jervolino ha 16 voti: un modo per dire non ci avete convinti, non siete voi i depositari del nuovo. Emma Bonino, sostenuta dal comitato Emma for president con lo slogan “l’uomo giusto al Quirinale”, ne prende 15.
Nel 2006 nasce il comitato “Tina Anselmi al Quirinale”: l’8 maggio iniziano le votazioni, in tre giorni e quattro scrutini è eletto Napolitano. Prendono 24 voti Franca Rame, 2 Lidia Menapace, partigiana femminista e cattolica, fondatrice del ‘manifesto’. Al secondo scrutinio 3 voti vanno a Maria Gabriella di Savoia figlia di Umberto, per gli addetti ai livori e per i goliardi ‘un’altra figlia del Re’, 3 voti vanno a Giuva nel senso di Linda, moglie di D’Alema. Tre, per equilibrio sapiente, alla giornalista Barbara Palombelli. Tutti messaggi cifrati, e chi ha orecchie per intendere intenda. Tutti
pizzini di un linguaggio da iniziati.
Poi se chiedi oggi, di una donna al Quirinale, i vecchi ti rispondono di quella volta che JFK disse a Vittoria Leone, vedendola per la prima volta e facendole un leggero inchino: “Ora capisco il successo di suo marito”. Un po’ l’equivalente, fatte le debite proporzioni, delle gote gonfie e della mano rotante di Silvio Berlusconi al cospetto di Michelle Obama. Belle, sì. Però non è questo il tema. Nemmeno la stoil
riella che Peppa Cossiga toglieva il piatto da tavola se il marito non arrivava a cena alle otto, che Carla Voltolina non si trasferì mai a Roma da Genova e che Marianna Scalfaro era la più ascoltata del padre. No, quando si dice una donna al Quirinale non si parla di questo. Ma ridono, sbuffano. Non capiscono, o imbarazzati fanno finta.
(3 — continua)