Ugo Bertone, Libero 5/4/2013, 5 aprile 2013
BERLINO FERMA LE FORBICI DI DRAGHI
La storia, spesso, si ripete. Oggi, come negli anni Trenta, il Giappone cerca una via originale di uscita dalla crisi. L’affondo del neo governatore della Bank of Japan, Haruhiko Kuroda, ricorda da vicino l’esperienza del ministro delle Finanze Korekiyo Takahashi, al governo dal 1931 al 1936. Oggi come allora, il governo di Tokyo decise di iniettare liquidità nell’economia. Oggi come allora, la banca centrale agì senza preoccuparsi degli effetti sullo yen. Anzi, sfruttando la svalutazione per debellare la deflazione, oggi come allora il male più profondo dell’economia. Il risultato? «Takahashi – ha detto Ben Bernanke trovò una soluzione brillante che fece uscire il Paese dalla crisi».
La lezione, resta valida: per uscire dalla crisi una politica aggressiva della banca centrale è necessaria ma non sufficiente. Occorre pure un’azione energetica di spesa pubblica, in grado di far ripartire la domanda, e le riforme necessarie per migliorare l’efficienza del sistema Paese, tagliando le spese improduttive.
Non si sa se la strategia di Tokyo funzionerà o meno. Quel che è certo è che la politica della Bce continua a non funzionare, come dimostra il fatto che la congiuntura va male e forse andrà peggio, come il governatore ha dichiarato per lo sconforto delle Borse. Difficile trovare una nota di conforto nelle parole di Mario Draghi. I tassi, tanto per cominciare, restano invariati dopo «una lunga discussione » e una decisione «presa per consenso». Insomma, si è litigato non poco e, alla fine, ci si è accodati alla volontà del più forte, vedi la Bundesbank. Già, anche qui la storia rischia di ripetersi: la solita diffidenza verso l’Italia inaffidabile. Come dimostra il giallo di una battuta di Draghi. A proposito di Cipro, fa notare, «la decisione iniziale sui depositi non è stata una mossa intelligente». Il che fa suonare un campanello d’allarme: il governatore della Bce è stato costantemente informato delle trattative in corso con Nicosia? Oppure l’Eurogruppo guidato dal pittoresco Jeroem Djissembloem, ha fatto tutto da solo o consultando solo Juergen Asmussen, il membro del direttorio della Bce di nomina tedesca? Delle due l’una: o il parere di Draghi non è stato tenuto da conto, oppure non è stato nemmeno consultato. Senza voler eccedere nella dietrologia, il sospetto è che qualcosa si sia incrinato negli equilibri della Bce che avevano consentito a Draghi, con il pieno appoggio di Angela Merkel, di sostenere il programma Omt, cioè gli acquisti di titoli italiani e spagnoli sul mercato.
Non stupiscono, in questa cornice, le non decisioni di Francoforte: la banca centrale deve, «riflettere intensamente – ha detto il governatore Draghi – per trovare qualcosa che sia efficace ma anche compatibile con il nostro mandato». Il che è una difficile quadratura del cerchio perché i veti della Bundesbank impediscono di escogitare meccanismi simili a quelli adottati dalla Bank of England per favorire l’afflusso del credito alle piccole e medie imprese. O tantomeno mosse in linea con le decisioni della Fed o della Banca del Giappone. E così, senza troppe illusioni, prendiamo atto che la ripresa già prevista nella seconda metà dell’anno è «soggetta a rischi». Di qui una sensazione di relativa debolezza, in cui Draghi fa quel che può, in attesa di recuperare quell’iniziativa politica che è tornata nelle mani dei sacerdoti della Bundesbank.
Ma Draghi, che è un ottimo politico, ha ben chiaro in mente la regola di Sun Tzu: dai battaglia solo quando sei sicuro di vincere. E oggi, al contrario, vincere non si può. Perciò l’Italia si dia una mossa senza attendersi miracoli da fuori. «La misura di stimolo più importante che un Paese possa dare – spiega senza citare l’Italia è restituire gli arretrati, che in alcuni casi valgono diversi punti di Pil».
Tutto qui. Draghi per ora altro non può fare (ed è già molto) che difendere le conquiste dalla scorsa estate, cioè gli acquisti di titoli a breve sui mercati che hanno messo sotto controllo lo spread di Italia e Spagna. Per il resto ci vorrebbe, come capita in Usa e in Giappone, una regìa politica in grado di affiancare l’azione delle autorità monetarie. Un’affermazione blasfema per i tedeschi, per cui l’indi pendenza della banca centrale è il valore più sacro, ma che la crisi ha ormai relegato in soffitta sia in Usa che in Giappone, ma anche nei Paesi emergenti. E come sta per accadere nel Regno Unito. A luglio salirà in cattedra Mark Carney, il governatore che la Bank of England ha chiamato dal Canada con un compito straordinario: guidare, in pratica, la politica economica di Londra, finita in depressione per aver adottato l’austerità all’europea. Carney avrà a disposizione quelle armi di cui Draghi non dispone. Armi che solo un governo può concedere.Ma dietro la Bce i governi sono tanti, i 17 dell’eurozona. Anche se, alla fine, conta solo la Germania.