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 2013  aprile 05 Venerdì calendario

Notizie tratte da: Pupi Avati, La grande invenzione. Un’autobiografia, Rizzoli Milano 2013, 18 euro

Notizie tratte da: Pupi Avati, La grande invenzione. Un’autobiografia, Rizzoli Milano 2013, 18 euro.

(vedi anche biblioteca in scheda 2232949
e libro in gocce in scheda 2235903)

Pupi Avati si inventò la storia del soprannome raccontando che sua madre da ragazzina si invaghì di un violinista austriaco che tutti a Salisburgo chiamavano Pupi.

«Per me la bugia non era altro che una diversa modalità dell’immaginazione, un modo per dilatare il reale. E questo, in definitiva, è ciò che mi ha spinto a fare il cinema» (Pupi Avati).

Pupi Avati prima ha scelto il jazz, poi «sono fuggito travestendomi da venditore di alimenti surgelati. Mi sentivo straordinariamente in parte nello scendere, con una ventiquattrore di vilpelle in completo Facis e occhiali polarizzati, da un’Alfa Romeo Giulia con un bagagliaio frigorifero pieno zeppo di bastoncini di pesce e spinaci tritati».

Angelo detto Lino, il papà di Pupi Avati, biondo di capelli e di baffi, con gli occhi azzurri e un magnifico sorriso. Era un appassionato del Quartetto Cetra, di Natalino Otto e di Bing Crosby; aveva cinque dischi settantotto giri che ascoltava tutte le sere e a volte faceva ballare sua figlia o la domestica Elsa, che si vergognava e bruciava il ragù. È morto in un incidente stradale il 10 agosto 1950.

Lino Avati, simpatico «nel modo di esserlo che fa ridere le donne».

Al mattino, la domestica Elsa porgeva a Lino la camicia fresca di bucato, appena stirata con il colletto non troppo inamidato. Sua moglie gli infilava nel taschino della giacca un fazzoletto di lino bianco.

Quella volta che Pupi, entrando nella stanza da letto dei suoi genitori, vide il pene del padre. Era la prima volta che ne vedeva uno di un adulto.

«Angelo Avati, mio padre, era un uomo soprattutto dotato della grande capacità di riconoscere il bello, capacità che gli derivava probabilmente dall’aver trascorso gli anni della sua formazione in quel grande negozio di antichità di suo padre che al calar della sera diventava ritrovo di tutti coloro si occupassero d’arte, per mestiere o per diletto, nella remota Bologna di quegli anni» (Pupi Avati).

Angelo Avati incontrò la sua futura moglie, Agnese Vigetti, figlia di Carlo e Osti Francesca, nel negozio di suo padre Giuseppe, detto Pippo.

Agnese Vigetti, nata nel 1914 a Bologna. La sua famiglia era originaria di Sasso Marconi. Il padre Carlino, nato nel 1889, operaio dell’Arsenale a Bologna, fino a cinque anni aveva vissuto a Monte San Pietro.

Olimpia, madre di Carlino Vigetti, di professione asolaia. Quando morì il marito, nel 1894, prese i suoi tre figli piccoli e partì per l’America.

Al porto di Genova, dove Olimpia, prima di imbarcarsi per l’America, spese le uniche lire che aveva per comprare ai suoi tre bambini una nave di pandispagna, marzapane e canditi.

Durante il viaggio per l’America, Olimpia cucì l’oro nelle lenzuola. Quando sbarcò a San Paolo del Brasile, però, non trovò più nulla: la ciurma aveva frugato nel bagagli dei passeggeri di terza classe rubando tutto.

Carlino, figlio di Olimpia, adottato da una coppia di italiani in Brasile. Quando, dopo qualche anno, la donna diventò proprietaria di una piantagione, andò a reclamare il figlio e lo riprese con sé.

Nel 1913, Carlino e i suoi fratelli ricevono la cartolina di precetto dall’Italia, vendono la fazenda di caffè e tornano a Sasso Marconi per difendere la patria.

Negli anni Venti, Carlino Vigetti sposò Francesca Osti, figlia di Sisto di San Leo.

Sisto Osti, che amava tanto il vino e sotto il letto aveva sistemato la sua bara piena di bottiglie di Albana.

Carlino Vigetti, che conquistò la moglie Francesca mangiando 25 bignè uno dopo l’altro.

Agnese Vigetti, figlia di Carlino e Francesca Osti, detta Ines perché Carlino aveva un debole per le spagnole.

Carlino, che «amava i maccheroni sopra ogni cosa e sapeva ripulire in un solo risucchio l’osso di una coscia di gallina, restituendolo al piatto netto di ogni residuo cartilaginoso. Fra i cibi disdegnava il risotto con tutto se stesso».

La famiglia di Francesca Osti era monarchica. Ogni anno, dopo la guerra, a maggio gli Osti andavano a Cascais a portare le ciliegie di Sasso Marconi al re Umberto.

Giuseppe Avati, nonno di Pupi, apparteneva a una famiglia alto borghese di Bologna. Possedevano una villa chiamata Le Caselle a San Donato, accanto a quella in cui Wolfgang Amadeus Mozart trascorse l’estate del 1770 ospite con il padre Leopold dei conti Pallavicini.

Aldo Avati, fratello di Giuseppe, nel 1930 aveva progettato l’Hotel Gallia di Milano insieme a un altro architetto, Laveni; aveva arredato gli interni del transatlantico Andrea Doria e il cinema teatro Odeon e aveva una cattedra a Brera.

Giuseppe Avati, molto conosciuto a Bologna grazie al suo negozio di antiquariato in Strada Maggiore. Giocava ai cavalli e una sera del 1937 perse tutto. Tornando a casa si fermò davanti alla Madonnina del Paradiso, un piccolo affresco che si trova in una delle sette chiese di Santo Stefano, e le chiese la grazia di morire. Giunto a casa, mangiò le tagliatelline in brodo che la moglie Medea faceva «strette e alte» e andò letto. Si addormentò senza più risvegliarsi.

Ines, la madre di Pupi Avati, si innamorò subito del marito Angelo, mentre lui ci mise un po’ ad accorgersi di lei. Quando si sposarono andarono a vivere in un appartamento in via San Vitale, a Bologna.

La Bologna degli anni Venti, quando «da Minarelli, in via Indipendenza, si poteva comprare una cravatta anche alle due di notte».

Angelo Avati e Ines si sposarono il 3 febbraio del 1938. Il pomeriggio dello stesso giorno del matrimonio andarono a Roma, scesero all’Hotel Pace Helvetia in via IV Novembre, dietro piazza Venezia, e qui consumarono la loro prima notte di nozze. Pioveva. Il giorno dopo lasciarono Roma e si spostarono al sud.

A nove mesi esatti dal matrimonio dei genitori, il 3 novembre 1938, in una clinica privata, nacque Pupi Avati. L’ostetrico era il professor Giardina, che per mettere a tacere la madre che durante il parto urlava troppo le affibbiò un paio di schiaffoni.

Nel 1942, con i primi bombardamenti di Bologna, Pupi e la sua famiglia si trasferirono a San Leo, vicino al bisnonno Sisto. Pupi Avati: «Anche se avevo appena quattro anni, di quei momenti di guerra ho ricordi nitidissimi: le sirene, noi che scendiamo nel rifugio allestito nelle cantine sotto casa mia, tutti che pregano, mia sorella Mariella più piccola di me di tre anni che piange, mia zia Teta che viene portata giù su un materasso. E poi la paura dei miei genitori, gli annunci di Radio Londra, la decisione di andarsene».

Amabile Osti, la sorella della nonna di Pupi. Nonostante fosse molto bella, fu tradita dal marito Antenore, cavallaro, la prima notte di nozze.

Amabile Osti, che gestiva il Bar Sport e vestiva i morti.

Quella volta che Rosalia, la moglie di Sisto Osti, scappò a Bari dopo l’ennesimo tradimento del marito e non voleva più tornare. Lui, allora, le mandò un telegramma a firma del parroco di San Leo in cui si diceva che, non sopportando la sua mancanza, si era impiccato. Quando lei tornò disperata per andare ai funerali e lo trovò invece ad attenderla alla stazione, gli diede una borsettata in faccia.

Maria Osti, l’altra figlia di Sisto, la prima donna a prendere la patente a Bologna.

Le parenti di Ines, la madre di Pupi, di tanto in tanto andavano a Bologna con lo scopo di portare notizie fresche sulla famiglia. Arrivavano nel pomeriggio, si sistemavano in cucina e «sgranavano tutto il bollettino familiare».

Prima della guerra Angelo Avati, il papà di Pupi, e il suo amico Lele Gardi, avevano dato vita a un’agenzia di rappresentanza di abbigliamento e filati di lana.

Angelo Avati, appassionato di filatelia. Durante lo sfollamento, riuscì a mantenere la famiglia comprando e vendendo francobolli, scambiando alla borsa nera serie emesse dal Regno di Sardegna o dallo Stato Pontificio per un quintale di farina o per mezzo maiale.

«Pippo», così venivano chiamati gli incursori alleati che sorvolavano la zona.

La notte in cui i genitori di Pupi decisero di nascondere la Topolino, seppellendola nell’orto. Scavarono un’enorme buca nel terreno accanto alla casa e, attraverso uno scivolo di assi, sospinsero l’auto nel fondo della buca, coprendola con lenzuola e tovaglie prima di ricoprirla con la terra smossa. Una ragazza che simpatizzava con i militari, però, assistette alla scena e riferì tutto ai tedeschi. La mattina dopo i soldati trovarono la Topolino e la requisirono.

Antonio Avati, il fratello di Pupi, nacque il 9 giugno 1946.

Nel dopoguerra, non essendoci né televisione né altri passatempi, la famiglia di Pupi si sedeva attorno al tavolo per evocare i defunti. Interrogavano soprattutto i personaggi famosi della Seconda guerra mondiale come Mussolini, la Petacci e Hitler e chiedevano loro dove si trovassero, chi li avesse veramente uccisi o come fossero scappati.

Leo, il figlio del postino e amico di Pupi, un pomeriggio d’estate gli svelò il «grande segreto del concepimento. Mi spiegò dettagliatamente perché lei avesse fra le gambe una fessura e io invece quel bastoncino mobile».

Il primo contatto fisico con una donna Pupi lo ebbe con una ragazza di nome Leda, più grande di lui. «Fingeva di passarci davanti del tutto casualmente e noi per tutta risposta non casualmente le saltavamo addosso. Si faceva la lotta e la lotta voleva dire aggrapparsi a una donna che si divincolava, stare sufficientemente aggrappato fino al momento in cui non serviva più stare aggrappato, perché ti buttavi indietro ed eri definitivamente felice, riconciliato con il mondo».

Pupi e i suoi amici, esperti nel fare le poste alle ragazze. Avevano attaccato alcuni specchietti a dei bastoncini e aspettavano di veder passare una ragazza che si diceva andasse in giro senza mutande.

Quella volta che il nonno di Pupi da sotto il tavolo mise una mano tra le cosce della zia Laura, che gli stava servendo il bollito. Lei rimase impietrita e non disse niente, posò il piatto sul tavolo e ritornò al suo posto.

Angelo, il papà di Pupi, muore in un incidente d’auto insieme a sua madre Francesca il 10 agosto del 1950. Stavano raggiungendo la famiglia che si trovava a Rimini in vacanza. L’incidente è riportato sulla prima pagina del Resto del Carlino.

L’11 agosto del 1950, il giorno dopo la morte del padre, quando Pupi ricevette il suo primo bacio da una ragazzina di nome Carla che gli piaceva «immensamente».

Dopo la morte del marito, la madre di Pupi cominciò a vendere i quadri della collezione per mantenere la famiglia. I primi a essere venduti furono due Morandi, gli ultimi i Boldini, quelli a cui lui era particolarmente affezionato.

Quella volta che il papà di Pupi mise il figlio in piedi su una sedia davanti a una piccola platea di parenti perché mostrasse loro com’era bravo a fare il direttore d’orchestra. Possedeva un disco di Toscanini e Pupi prendeva una matita fingendo di dirigere.

Pupi fa la promessa da lupetto nei boy scout nel 1950, a 12 anni.

La prima umiliazione di Pupi: nel 1953, alla Festa di Primavera degli scout, quando il suo gruppo, le Volpi di Bologna, arriva ultimo nelle competizioni.

Per far superare la maturità a Pupi, sua madre scoprì il punto debole di un professore influentissimo della commissione esterna: una stilografica laminata in oro di marca Omas, modello 1941, unico pezzo mancante della sua collezione. La trovò e la recapitò al professore.

Quando Pupi giurò sul quadro di san Francesco di Paola che se fosse stato promosso alla maturità sarebbe andato a piedi al suo santuario.

L’unica volta che Pupi prese uno schiaffo da suo padre fu quando, da bambino, rubò i soldi alla domestica Tonina per comprarsi i fumetti.

Quando Pupi decise di mettere in piedi una jazz band, il primo che reclutò fu il suo amico Luigi Nasalvi, che non aveva la minima idea di cosa fosse il jazz e voleva suonare Grazie dei fior con la fisarmonica.

Pupi Avati, che da bambino aveva imparato a suonare il pianoforte e poi ha preferito il clarinetto.

Quando la madre di Pupi seppe che il figlio stava mettendo insieme una jazz band andò ad affittare gli strumenti per tutti.

La Criminal Jazz Band, il nome scelto per la band di Pupi, in riferimento alla Magistratus Jazz Band, «un gruppo di studenti dell’università che sapevano suonare sul serio».

Pupi, grazie all’appoggio della madre e alla sua conoscenza con il cardinal Lercaro, si inventò un concorso, la Coppa del Cardinale, dove la Criminal Jazz Band avrebbe sfidato la Magistratus, che però non si presentò all’evento.

La band di Pupi partecipa alle selezioni bolognesi di Primo applauso, un programma simile alla Corrida che Enzo Tortora portava in giro per i teatri italiani. Si presentano al Duse di Bologna con una formazione di sette elementi, tutti vestiti con gilet e bretelle, la paglietta in testa e il nome scritto sulla batteria. Li nota un impresario di Bologna, il dottor Mariotti, e gli procura un contratto con il teatro Universal di Genova.

Cicci Foresti, un amico di Pupi che per sua madre «era il diavolo: era lui che mi portava sulla cattiva strada, altro che la musica jazz».

Quando Pupi usciva con Cicci e rientrava alle tre-quattro del mattino, la madre lo aspettava sulla terrazza in camicia da notte, con i capelli scarmigliati. Gli faceva delle scenate terrificanti, tirandogli addosso qualsiasi cosa, una volta pure un paio di forbici nella schiena.

Pupi e Cicci, che partivano da Porta Saragozza e arrivavano a piedi fino a Zanarini, il famoso bar del centro: ai bar di sinistra pagava Cicci, a quelli di destra Pupi e in tutti si fermavano a bere un aperitivo.

Chez Lulù, così Pupi e Cicci Foresti avevano chiamato una sorta di garçonnière che avevano affittato per portarci le amiche. Quelle che si facevano attirare più facilmente erano le commesse della Standa. Offrivano loro da bere e mentre Cicci ci combinava qualcosa Pupi straparlava da solo.

Quella volta che a casa delle sorelle Perrazzo, amiche della madre di Pupi, lui e Cicci si sono finti omosessuali cominciando a ballare guancia a guancia. Le padrone di casa prima si misero a piangere e poi li sbatterono fuori.

Pupi Avati soprannominato «Peppino Camparino» perché beveva tanto. Una volta al Bar Margherita per scommessa bevve diciassette Campari Soda.

Quella volta che Pupi e Cicci lanciarono ai cinquanta le loro due Cinquecento verdoline identiche in via Mezzofanti e, tenendo l’acceleratore a mano al minimo, riuscirono a scambiarsi di posto uscendo dal tetto con tutti i clienti del Bar Masi fuori che li insultavano.

La «“nostalgia del presente” come mi insegnò a chiamarla Hermes Pan, questo sentimento della nostalgia che si ha di qualcosa già mentre la si vive, avvertendola irripetibile. […] Ed è sostanzialmente per questo che ho fatto il cinema: per replicare attraverso questo strumento così mistificatorio le cose che altrimenti non tornano più» (Pupi Avati).

Una volta che Pupi Avati era ospite in un talk show e gli si avvicinò una «donnotta con le calze contenitive, la borsetta e la pelliccia di astrakan». Era la sua amica Roberta, che cinquant’anni prima era stata eletta miss Bologna. Lui prima non la riconosce e poi gli dice di aspettarlo e scappa via.

Prima della moglie, Pupi Avati era andato molto vicino al matrimonio con un’altra ragazza. Il padre di lei gli aveva già comprato l’appartamento, ma si lasciarono per colpa degli amici di lui: erano gelosi perché si vedevano sempre meno.

«Il corteggiamento a quei tempi avveniva in modo molto urbano, e in certi casi la cosa poteva anche durare a lungo. Si andava dietro a una per giorni e giorni, senza spesso ottenere nulla più che un cenno del capo, e quando dico andarle dietro, lo intendo proprio in senso letterale: ti accodavi alla ragazza che ti piaceva quando usciva da scuola e la seguivi fino a casa sua, tenendoti a una distanza di una decina di passi, in modo che non potesse non accorgersi della tua presenza, ma non si sentisse nemmeno pressata» (Pupi Avati).

«Le ragazze belle erano inattaccabili: difficile che si andasse oltre a uno scambio di baci imprigionate com’erano da certe guaine di lastex dentro alle quali non era possibile infilare nemmeno un dito. Le brutte no: di solito erano più accessibili e cedevano molto più facilmente alle nostre offensive» (Pupi Avati).

Pupi, per sedurre una ragazza di nome Lorenza, andava a prenderla ogni volta con auto diverse, sempre a noleggio. Una sera, sui sedili posteriori, le fece trovare un mendicante che suonava al clarinetto melodie romantiche.

Durante una festa a casa di Gabriella Silvestroni, Pupi ha fumato per la prima volta una sigaretta intera e ha vomitato giù dal terrazzo su un cane che si era girato in su a guardarlo.

Dall’unione fra la Criminal e la Magistratus Jazz Band nacque la Doctor Dixie Jazz Band, nella quale cominciò a suonare un ragazzino che si chiamava Lucio Dalla.

La prima volta che Pupi Avati vide Lucio Dalla. Era sul palcoscenico del teatro parrocchiale di San Giuseppe. Aveva otto anni circa ed era un bambino piccolissimo. Indossava un frac nero, un cilindro in testa e suonava una piccola fisarmonica. Ballava il tip tap ed era di una bellezza sorprendente.

Su Pupi Avati e Lucio Dalla circola un aneddoto secondo il quale un giorno Pupi lo avrebbe attirato con l’inganno su una delle torri della Sagrada Familia di Barcellona con lo scopo di buttarlo di sotto.

«Pupino», così Lucio Dalla chiamava Pupi Avati nelle lunghe telefonate che gli faceva la notte.

Lucio Dalla, che da piccolo andava dietro a Pupi Avati e si faceva offrire pasta e fagioli e cipolle perché in tasca non aveva un soldo.

Quando Pupi incontrò Nicola, quella che diventerà sua moglie, era fidanzato con un’altra ragazza. Si baciano ma dopo una settimana lei lo lascia perché si stanca della sua vita inaffidabile. Allora lui comincia a farle la corte per un anno e mezzo.

«Nicola era la donna della mia vita. Se qualcuno mi avesse chiesto perché, non avrei saputo dirlo, ed era per questo che ero così certo che lo fosse: perché quello per lei era un sentimento impossibile da razionalizzare» (Pupi Avati).

La madre di Pupi, che si inventò albergatrice quando i quadri da vendere finirono.

Quando Pupi Avati cominciò a lavorare come venditore per la Findus, che aveva deciso di entrare nel mercato italiano aprendo la prima sede a Milano.

Quando Pupi viene assunto come dirigente della Findus a Bologna torna da Nicola: «Finalmente potevo dirle: sono un uomo affidabile, sono un dirigente Findus, una brava persona, uno con la ventiquattrore in vilpelle, la cravatta, il vestito Facis, che guadagna e può offrirti una bella vita. Non sono più il jazzista inaffidabile che conoscevi tu. L’ho fatto per te».

Maria Antonia, la prima figlia di Pupi e Nicola, nasce l’11 luglio del 1966. Quando Pupi sente il primo vagito della bambina piange.

Se Pupi Avati comincia a fare il regista «è per merito di Otto e mezzo di Federico Fellini. La prima di una lunga serie di visioni di quel film è avvenuta un pomeriggio del 1964 a Bologna, al cinema del Dopolavoro dei Ferrovieri. […] Quel film mi fece capire con tutta la sua straordinaria forza che il cinema era uno strumento meraviglioso capace di ampliare la realtà: di mostrare in un tutt’uno il razionale e l’irrazionale, la verità e la menzogna. Ricordo di essere uscito da quella proiezione con la precisa consapevolezza di quello che avrei fatto nella vita».

Quando Pupi Avati decide di voler fare il regista inizia a radunare una squadra: Giorgio Celli e Roberto Raviola in arte Magnus. Nel frattempo continua a lavorare alla Findus.

«Non scrivetemi più», la risposta di Ennio Flaiano alla lettera che Pupi Avati spedisce alle varie produzioni. La proposta di film è incentrata sulla figura di Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro.

Alberto Bartolani presenta a Pupi Avati Ariano Tonelli, un nano che ha un gatto enorme addomesticato.

Ariano Tonelli, che si cambia il nome in Bob Tonelli.

Il finanziatore del primo film di Pupi Avati, nel 1968, è un certo Mister X, un imprenditore miliardario che non vuole far sapere il proprio nome. Si incontrano al Bar Margherita e Mister X gli lascia sedici assegni di conto corrente per un totale di 160 milioni di lire, senza pretender la ricevuta.

Mister X, di professione costruttore, che paga la cartella delle tasse più alta di tutta la città e quando va in comune se l’appunta sul bavero della giacca con una molletta da bucato perché tutti la vedano.

Balsamus, il primo film di Pupi Avati con Bob Tonelli come protagonista.

La prima di Balsamus si tiene nell’inverno del 1969 all’Eliseo di Bologna. Quella sera il cinema è affollato, ma la distribuzione è negativa. Unica eccezione: a Roma, al salone Margherita, dove lo vede anche Mario Monicelli e se ne entusiasma.

Mister X finanzia anche il secondo film di Pupi Avati, Thomas.

La prima volta che Pupi Avati andò a Roma fu nel 1950, in occasione dell’Anno Santo, in compagnia di un padre cappuccino amico di famiglia. Gli rimase veramente impressa solo una cosa: un cartello stradale a San Giovanni, una freccia di quelle azzurre con la scritta «Cinecittà».

Per aiutare il figlio che voleva fare il regista, la madre di Pupi si trasferisce a Roma e rileva una pensione in via del Babuino.

Quando Pupi si trasferisce a Roma da Bologna. Scappa di notte caricando sulla sua Mini Morris la moglie e la figlia Maria Antonia con la carrozzina. Il figlio piccolo Tommaso lo lasciano alla suocera. Se ne vanno al buio, quasi a fari spenti, senza lasciare detto dove sono diretti.

A causa dell’insuccesso dei primi due film, un distributore consiglia a Pupi Avati di andare all’anagrafe e di cambiare nome per rimettersi su piazza.

Quando si trasferisce a Roma Pupi Avati rimane quattro anni disoccupato.

Pupi Avati, chiamato da Sandro Bolchi e Mario Lanfranchi della Intervision, dirige Alberto Lionello nello spot della Cynar.

La prima volta che Pupi Avati vide Pierpaolo Pasolini fu quando andò a portargli a casa una copia di Le 120 giornate di Sodoma del Marchese De Sade, libro all’indice che si trovava al commercio sottobanco delle bancarelle di piazza Esedra.

Pasolini, figlio di un ufficiale bolognese e nato in una foresteria militare in via Borgonuovo. Aveva fatto il liceo al Galvani ed era stato promosso alla terza liceo con una media così alta da fargli saltare un anno e presentarsi alla maturità in anticipo.

Quando Ugo Tognazzi lesse per sbaglio il copione di La mazurka e si candidò per il ruolo di protagonista. A metterglielo per sbaglio nella valigia era stata la moglie Franca. In realtà il copione era destinato a Paolo Villaggio.

Cesare Lanza, che provenendo dal mondo della finanza non sapeva molto di cinema e faceva leggere i copioni a Pupi Avati per averne una sua opinione. Nessuno, però, lo doveva sapere.

Bordella, il quarto film di Pupi Avati, viene sequestrato per oscenità nel 1976.

L’attore Al Lettieri, che aveva sette fori di proiettile su una gamba.

La sera del sit-in di protesta contro la censura di Bordella Pupi Avati rimane da solo davanti al ministero.

L’A.M.A. Film, acronimo dei cognomi di Pupi Avati, Gianni Minervini e Antonio Avati.

La casa delle finestre che ridono, girato in dodici persone.

Nella notte del 6 maggio del 1976 Pupi Avati si trovava nel ferrarese a girare La casa delle finestre che ridono, quando un terremoto colpì il Friuli. «Le scosse arrivano fino a noi quando la torre di Comacchio oscilla in modo spaventoso, e le campane di tutte le chiese suonano all’unisono, gettandoci nel panico».

L’obiettivo di La casa delle finestre che ridono è quello di spaventare, ma all’anteprima al cinema Europa di Roma, a Porta Pia, la gente ride.

«Sono tuttavia certo che La casa delle finestre che ridono offra allo spettatore uno dei finali più terrorizzanti della storia del cinema gotico. Un finale che, come mi hanno confermato migliaia di incontri pubblici, ha traumatizzato generazioni e generazioni di adolescenti» (Pupi Avati).

Quando Pupi Avati decide di girare Jazz Band, una serie per la Rai sulla sua gioventù a Bologna.

La prima volta che Pupi Avati incontrò Mariangela Melato sul set di Thomas, «una ragazza dai capelli ricci nerissimi, gli occhi buissimi, avvolta in una sorta di mantello nero. Una Irene Papas ragazza».

«Lei recita la sua battuta e io vengo raggiunto da una frustata in faccia, una scossa, un brivido. E l’intero set vive un momento di sacrale stupore» (Pupi Avati su Mariangela Melato).

Quando Pupi Avati incontrò Nik Novecento per la prima volta si chiamava ancora Leonardo Sottani ed era uno sconosciuto ragazzino che arrivava da Pontecchio Marconi, sulle colline bolognesi.

Quella volta che il dottor Cirri, presidente del Credito romagnolo, diede a Pupi Avati cinquanta milioni di lire per un film. Era il 1983.

Il soprannome a Nik Novecento lo dà Antonio Avati, fratello di Pupi. Il motivo: un film è composto in media da 120-150 sequenze che sul copione sono numerate progressivamente. Quando si girano delle scene che non sono incluse nello script ma nascono da una suggestione non prevista, vengono definite sul ciak «novecento». Nik girava spesso scene frutto dell’improvvisazione.

Nik Novecento, che per la sua partecipazione al Costanzo Show riceveva un considerevole cachet.

Il giorno in cui morì, Nik Novecento aveva pranzato insieme a Pupi Avati alla Fonoroma dove stavano doppiando Sposi.

Quella volta che Alessandro Haber fece una scenata nell’ufficio di Pupi Avati. Entrò come una furia, si mise a piangere e urlare, disperato perché non lo chiamava mai. Fu così che ottenne una parte per Regalo di Natale.

Jean-Pierre Léaud viene scelto per una parte in Regalo di Natale, ma due settimane prima dell’inizio delle riprese viene arrestato: una vicina lo ha innervosito perché teneva la radio troppo alta e lui le ha lasciato cadere in testa un vaso di fiori dal piano di sopra, rischiando di ucciderla.

Quando Pupi Avati viene ricoverato per un infarto al Gemelli ha la stanza di fronte a quella di Mario Monicelli, anche lui ricoverato per aver riportato diciassette fratture in seguito a un incidente stradale sulla Aurelia.

Il giorno che Pupi Avati si innamorò del jazz aveva quindici anni. Era a casa con l’influenza. Sua madre gli portò alcuni libri che aveva pescato alla biblioteca circolante della chiesa di san Giuseppe. Sceglieva dei titoli a caso e quel giorno gli portò un libretto appena uscito per Mondadori dal titolo Il Jazz. Conteneva delle biografie, ognuna lunga sei-sette pagine, di tutti i principali protagonisti della scena musicale americana: Louis Armstrong, Duke Ellington, Benny Goodman, Bix Beiderbecke ecc.

Pupi Avati, che trascrisse a mano, in italiano, trecentocinquanta pagine di biografia in inglese di Bix Beiderbecke. «È una di quelle biografie che piacciono a me, meticolose, alla maniera anglosassone, in cui non c’è solo la musica, ma tutto il mondo del protagonista, la famiglia, i fratelli, gli amici, la sua infanzia».

Per fare un film su Bix Beiderbecke, Pupi Avati comprò la sua casa di Davenport e la ristrutturò.

Quando il padre di Pupi morì, le amiche della madre cominciarono a insistere perché lei si rifacesse una vita. Le organizzavano degli incontri ai quali lei si portava sempre Pupi come salvagente: in questo modo, il signore in questione non si poteva permettere comportamenti poco leciti.

Negli ultimi anni di vita, la madre di Pupi andava tutte le sere a messa e alla stessa funzione trovava sempre Giulietta Masina, la moglie di Federico Fellini, e la moglie di Nino Za. Fellini passava spesso a prendere Giulietta e certe volte entrava in chiesa senza essere visto.

Per un certo periodo si diceva che Giovanni Paolo II si nascondesse in uno dei confessionali di San Pietro. Allora Pupi Avati ci andò sperando che fosse lui a confessarlo. Invece ci trovò un prete irlandese che gli consigliò di andare dallo psicanalista.

«Guardi che lei non deve confessarsi, ma andare da uno psicanalista», così un prete irlandese a Pupi Avati che gli confessò i suoi due soliti peccati: «Sono egoista, do solo il superfluo, e sono invidioso: quando un mio collega ha successo soffro».

Quella volta che Pupi Avati avrebbe dovuto essere il regista di un’intervista di Giovanni Paolo II per la televisione. Era la prima volta che un pontefice si esponeva in tv per rispondere alle domande di un giornalista. Poi però il papa fece dietrofront e preferì mandare le risposte scritte, in polacco, a Vittorio Messori, il giornalista che avrebbe dovuto condurre l’intervista.

«La punizione più dolorosa che infliggo ai miei figli resta comunque quella di andare nei cinema dove proiettano un mio film, obbligandoli a catturare in maniera estremamente dettagliata le reazioni del pubblico e le sue caratteristiche» (Pupi Avati).

«Cazzo!», l’urlo di Mariangela Melato la terza volta che Jean-Pierre Léaud non trattenne la lingua nel baciarla.