Roger Salas, il Venerdì 5/4/2013, 5 aprile 2013
BOLSHOJ [SUICIDI, STRANE MORTI, VELENI. UNA SCIA DI SANGUE LUNGA QUANTO IL 900]
MOSCA. Lidia Ivanova, chiamata affettuosamente Lidochka, era una ragazza allegra, esuberante e una splendida ballerina. Nella primavera del 1924 morì annegata nelle gelide acque della Neva, a Pietrogrado. Era in barca con quattro amici militari. Non fu un incidente, ma una barca più grande investì quella più piccola.
Gli uomini furono ripescati (il giorno dopo furono visti bere insieme in una taverna del centro). Lidia sapeva troppo e mancavano solo due giorni alla partenza per una prima tournée in Occidente di giovani artisti sovietici «ebbri di modernità».
Tra questi, c’era un giovane collega di Lidia, Georgij Balanchivadze, al quale Diaghilev, a Parigi, avrebbe poco dopo cambiato il nome in Balanchine. Sia lui che gli altri ballerini (tra i quali la sua futura moglie, Tamara Geva, e Aleksandra Danílova) ricevettero dei minacciosi telegrammi dai Soviet che gli ingiungevano di tornare, ma loro li ignorarono e non si fermarono che a Londra.
Su questo sono stati scritti molti libri. Tanto Solomon Volkov (in San Pietroburgo. Da Puskin a Brodskij, storia di una capitale culturale) che Elizabeth Kendall (in Balanchine & the Lost Muse) assicurano che aver deciso di proseguire senza guardarsi indietro salvò loro la vita. Destino della danza! Quella decisione collettiva avrebbe cambiato la storia del balletto del secolo XX e specialmente quello nordamericano, successivamente, con l’arrivo dei russi.
Lidia Ivanova era la musa di Balanchine, il suo campo di sperimentazione. Già il 15 agosto del 1922 avevano creato insieme la Valse triste (che si ispirava a La sonnambula di Bellini, quasi una premonizione) e la ballerina annegata continuò a essere presente nelle opere del grande coreografo per tutta la sua vita, a volte più esplicitamente che in altre, come una fantasia evocatrice della tragedia e della morte. Per esempio in Serenade, del 1934, il primo balletto con la coreografia di Balanchine dopo il suo arrivo negli Stati Uniti. Serenade è un balletto di amore e morte basato su un lavoro precedente, Eros, creato da uno dei suoi maestri, Michail Fokin. L’opera si conclude con una luttuosa processione verso il nulla.
Molti anni dopo, nel 1982, ormai agonizzante in un ospedale di New York, vittima del morbo di Creutzfeldt-Jakob (la cosiddetta malattia della «mucca pazza»), Balanchine ricevette la visita di un giovane membro della sua compagnia, il New York City Ballet (NYCB). Si chiamava Joseph Duell. Balanchine (che nel 1913, quando aveva nove anni, era stato abbandonato da sua madre sulla porta della scuola di danza) proteggeva e capiva il grande talento di Joe (così veniva chiamato Duell fin dai giorni in cui cominciava a distinguersi come studente della School of American Ballet), e gli disse: «Non avere fretta, hai tempo e non ti manca nulla». Quattro anni dopo, Joseph si buttò dalla finestra del suo appartamento al quinto piano nella 77sima Strada di Manhattan, e il 27 aprile del 1986, Tony Bentley, suo collega del NYCB, scrisse sul New York Times: «Quando qualcuno si toglie la vita rimaniamo sorpresi, scioccati. Ma quando c’è un suicidio in una compagnia di danza, a quella prima impressione si mescola uno sconcerto che scuote il nostro mondo dalle fondamenta». La notte prima, il suicida aveva provato un balletto di Balanchine intitolato Who cares? (A chi importa?). Duell aveva ottenuto di recente il posto di primo ballerino, mentre suo fratello maggiore lo era già. Esisteva un’aspra concorrenza professionale tra di loro, ma si volevano bene. La spinta a perfezionarsi era enorme. Qualche mese prima era scappato dalla compagnia ma poi era tornato. Era riservato e creativo, cominciava ad avere successo come coreografo e si interrogava su tutto («Perché la quinta posizione è stata il punto centrale della danza classica per 300 anni?»). La domenica successiva alla sua morte, ballarono per lui al Lincoln Center. Un omaggio senza lacrime e con lunghi silenzi in cui le risposte erano lasciate alla musica.
Gennady Smakov, nella sua recensione sul New York Review of Books del libro autobiografico di Valerij Panov (anche lui fuggito da Leningrado in Israele nei primi anni Settanta del secolo XX), scrisse che una maledizione burocratica e disumana sembra abitare da sempre nei teatri russi, dai tempi zaristi fino ai bolscevici e oltre, fino ai nostri giorni. Lo storico, che intitolò la sua recensione Teatro della crudeltà, non visse abbastanza per poterlo raccontare. Dopo la stupenda biografia del coreografo Marius Petipa (in cui raccontava le meschinità che il teatro Mariinskij di San Pietroburgo gli fece patire quasi fino al momento in cui spirò), morì a New York a 48 anni, nel 1988, quando si cominciava a intravedere la glasnost e la parola perestroika non era entrata ancora nell’immaginario globale. Né la glasnost né la perestroika, tuttavia, hanno smosso un granché nei teatri russi. Sono vecchie storie, ma la loro crudeltà non invecchia.
Molti anni prima, nel novembre del 1905, sempre a San Pietroburgo, Sergej Legat, terrorizzato dalle prime sommosse rivoluzionarie e dalle voci di purghe nel teatro, si tagliò la gola con il rasoio. Vaslav Nijinsky era il suo alunno prediletto, ma andò tutto per aria a causa di uno sciopero, di denunce di tradimento fatte sotto costrizione, di una firma e dello stigma di crumiro.
Il 15 gennaio del 1977, il ballerino Jurij Soloviev, all’età di 36 anni, «fu trovato morto nella sua dacia in circostanze piuttosto misteriose» (la frase è tradotta letteralmente dalla voce dell’Oxford Dictionary of Ballet ); stabilirono che si trattava di un suicidio. Era sposato con Tatiana Legat, discendente di terza generazione di Sergej, quello del rasoio. Come piatti fantasmi, grandi fotografie in bianco e nero di Soloviev popolano ancora i vetusti corridoi del teatro Mariinskij, dove a tutt’oggi nessuno vuole toccare questo argomento. Alcool, sesso, persecuzioni, invidie professionali. C’è tutto questo nella leggenda di Soloviev, oltre al suo salto prodigioso e al suo lirismo a lungo applaudito.
Vaslav Nijinsky e Olga Spessivtseva, due delle grandi étoile mitiche dei Balletti Russi di Diaghilev, finirono i loro giorni nella nebbia della pazzia. Entrambi tentarono il suicidio e furono tanto adorati quanto perseguitati dalle rivalità. Nijinsky fu tormentato ed espulso dal teatro Mariinskij (fu così che arrivò tra le braccia di Diaghilev, che era già innamorato del giovane talento). La Spessivtseva fu sempre criticata per il suo modo di essere, per il suo ermetismo. A volte, anche essere riservati era considerato uno sbaglio.
Dovunque andassero, i russi portavano con sé le loro icone, le loro superstizioni e le loro spade. Il 30 marzo del 1958, Serge Lifar e il marchese di Cuevas si batterono in duello alla periferia di Parigi. Non fu un evento privato, benché questi combattimenti fossero proibiti. C’erano più di 50 giornalisti, tra fotografi e cronisti, più due cineprese. José Luis de Vilallonga lo raccontò in modo molto fantasioso nelle sue memorie (Mi vida es una fiesta. Ediciones B, 1988). La cronaca del New York Times scrisse: «Il più delicato scontro nella storia del duello francese». I duellanti dissero ai giornalisti che si battevano per una faccenda di donne, il che provocò la prima risata generale di quel gelido mattino. Quei maturi signori emulavano ancora nei gusti il proustiano barone di Charlus. Il ballerino russo si era offeso per i cambiamenti imposti nel suo balletto Black and White e fece una scenata al marchese (di 72 anni), che lo schiaffeggiò. Tutto questo accadde nel vestibolo del Théâtre du Châtelet, dove Cuevas (che a volte usava una mitra da arcivescovo adattata da Christian Dior) si faceva portare in lettiga vestito all’ottomana, con turbante, piume e filze di perle, sempre preceduto da sette cani pechinesi.
Lifar, di vent’anni più giovane, profumato di violetta, lo sfidò a duello. Bisogna dire che Jorge Cuevas, che era nato in Cile nel 1885, aveva avuto la fortuna di sposare Margaret Strong Rockefeller e che lei lasciava che lui spendesse a piacimento i suoi soldi in feste e balletti, mentre lei beveva nella stanza accanto. Il titolo di marchese era stato un regalo spagnolo. È di quell’epoca la famosa frase di una ballerina russa del suo gruppo a Parigi: «È evidente che l’odio fa parte dell’amore per il lavoro!».
Il marchese di Cuevas scelse come padrini del duello Vilallonga e Jean-Marie Le Pen, il futuro leader dell’estrema destra francese, che non poteva rifiutarsi, dato che si era fatto dare del denaro dal marchese per fondare il suo partito politico. Cuevas si faceva tra l’altro notare perché portava sempre sul petto un distintivo della Legion d’onore di chissà chi, comprato al mercato delle pulci. Serge Lifar, da parte sua, era già noto alla cronaca parigina da quando, il giorno della sepoltura di Nijinsky, si lanciò o scivolò (non si è mai saputo) nella sua fossa. Alla fine, Lifar ferito al braccio e il marchese in lacrime si abbracciarono. Si dice che un fotografo abbia gridato: «Che schifo!».
Qualche volta si riuscì ad evitare una disgrazia più grave. Il 2 novembre del 1943, Alicia Alonso dovette sostituire precipitosamente Alicia Markova nel ruolo di protagonista in Giselle durante uno spettacolo della sua compagnia di allora, il Ballet Theatre, a New York. La Markova, dal letto in cui giaceva malata, fece giungere alla Alonso un regalo incartato con cura. Si trattava di un fermaglio per i capelli per il secondo atto di Giselle, con un bigliettino in cui era scritto più o meno così: «Usalo, ti porterà fortuna». Alicia, allora al suo debutto, si mise con emozione quell’elaborato monile, ma quando stava per entrare in scena una ballerina la guardò sbalordita: «Che fai con quel coso in testa? La Markova non lo usa perché si impiglia sempre nella maniche del ballerino!».
La Alonso stessa raccontava anni fa come arrivò a Mosca, nel rigido inverno del 1957. Era la prima ballerina occidentale a ballare Giselle in Unione Sovietica come étoile della scuola di danza classica nordamericana (i russi ignoravano che fosse cubana). Tra le altre peripezie di quel viaggio, che la portò anche a Leningrado, Kiev e Riga, le assegnarono al Bolshoj un gelido camerino sotterraneo, con lo specchio rotto e i mobili tappezzati di stoffa marrone. Sulla toilette, un vaso con rose gialle: i due colori tradizionalmente di cattivo augurio per i ballerini. Che fosse un caso o che lo avessero fatto apposta, quell’accoglienza non fu particolarmente calorosa, anche se tutto cambiò quando la videro ballare. E lì conobbe Maris Liepa, con cui avrebbe ballato anni dopo.
Al Bolshoj di Mosca, Maris Liepa era adorato come una delle sue grandi e leggendarie étoile maschili. Morì il 26 marzo del 1989 logorato dall’alcol e dalla tristezza. Il rapporto di Maris Liepa con l’onnipotente Jurij Grigorovich si era deteriorato dal 1970, quando lo escluse da ogni ruolo e rimase fuori dalla lista degli interpreti delle nuove produzioni dirette dallo stesso Grigorovich. Liepa, sfinito, rinunciò al suo posto al Bolshoj nel 1982, e il giorno della sua morte, durante il debutto di un altro balletto di Grigorovich, dalla piccionaia spiegarono un cartello con scritto: «Lo hai ucciso tu».
«A Mosca, in fondo, sono cambiate poche cose» sussurra una ballerina russa guardando per terra. Si tratta del lato oscuro della bellezza russa? Così dice l’adagio. Il funesto miscuglio di amore e lavoro continua a lasciare esempi terribili. Anna Pavlova, della quale lo scrittore John Van Druten diceva: «È il vento che pesa come un’ombra sul campo di grano», ebbe il suo grande amore nella sua San Pietroburgo natale. Si chiamava Boris e, ancora una volta, lo trovarono che galleggiava nella Neva; anche lui aveva 22 anni ed erano già amanti, il che non piaceva affatto ai dirigenti del teatro, per i quali la Pavlova era «una sorta di preziosa proprietà privata». Anna Pavlova, che poi sarebbe fuggita, aveva cominciato a ballare per strada sollecitata dalla madre, e a 10 anni fu ammessa con una borsa di studio alla Scuola dei Teatri Imperiali. In omaggio al suo amante sacrificato, creò uno dei suoi rari balletti, Foglie d’autunno.
È passato esattamente un secolo, ma la danza continua, suo malgrado, a produrre tragedie. Dopo l’aggressione con l’acido a Sergej Filin, direttore del Bolshoj, avvenuta in una strada di Mosca a metà dello scorso gennaio, la polizia russa si è mostrata prudente. Ha interrogato due volte Nikolaj Tsiskaridze, e anche una trentina di dipendenti del teatro. Tsiskaridze, primo ballerino, 39 anni, georgiano di origine, è un nemico dichiarato di Filin al Bolshoj. Si è proclamato innocente, ma anche a rischio di danneggiare per sempre la sua immagine pubblica, e senza un briciolo di compassione, non ha nascosto il suo sviscerato odio nei confronti del rivale. Tsiskaridze, che gode di una protezione politica ai più alti livelli (trascorre le vacanze con Putin in Costa Azzurra) ed è circondato da un nutrito seguito di fanatici della danza classica, ambiva al posto di direttore nel 2011, e scomparve misteriosamente dopo la nomina di Filin. Il quale assunse l’incarico nel marzo del 2011, dopo che il suo predecessore, Gennadij Janin, aveva dovuto dimettersi in seguito alla pubblicazione di presunte sue foto pornografiche in un falso sito web del teatro. La ballettomania è innocua di per sé, il problema lo creano i ballettomani, con una pressione malata sugli artisti che arriva a influenzare negativamente i risultati artistici.
Recentemente, due étoile del Bolshoj, Natalia Osipova e Ivan Vasiliev, hanno abbandonato la casa moscovita per andare a San Pietroburgo, al teatro Mikhailovskij diretto da Nacho Duato, con contratti molto convenienti patrocinati dal cosiddetto zar dei cetrioli, un commerciante di frutta e verdura che gioca a fare il nuovo Diaghilev. Tsiskaridze, sorpreso dalle dimensioni del caso di Film e denunciando una presunta campagna persecutoria nei suoi confronti, ha detto, riguardo a queste diserzioni: «Mi pento di non averlo fatto anch’io». La direzione del teatro cercò di licenziarlo, senza riuscirci, un anno fa. Il ballerino insolente è tornato alla carica: «Stanno tornando i metodi del 1937» ha detto, alludendo alle purghe staliniste.
Il cigno nero è un pessimo film sulla danza classica, ma si torna a citare con insistenza in relazione ai terribili eventi di Mosca. Il film si perde in un sordo gorgheggio di uccelli malati in cui l’unica verità è la sofferenza dei ballerini di fronte a un mucchio di fattori esterni (e interni). Sono le leggende nere che a volte danno un sordo schiaffone alla realtà. «Se a tutto questo aggiungi le altre tre piaghe odierne: l’Aids, l’anoressia e le droghe, che cosa ci rimane nella danza classica?» dice un’anziana ballerina francese dal suo ritiro di Montecarlo. «Non si deve scrivere un libro su questi incidenti sul lavoro; diventerebbe un terrificante manuale d’istruzioni».
Roger Salas
traduzione di Luis E. Moriones