Donato Masciandaro, Il Sole 24 Ore 5/4/2013, 5 aprile 2013
L’ILLUSIONE DEI TASSI
Oggi una riduzione dei tassi di interesse non serve a nulla, in termini di inflazione, crescita e stabilità finanziaria. Anzi, dopo il pasticcio combinato dalla Ue con Cipro, potrebbe essere addirittura una ulteriore tossina proprio per la stabilità. La verità è che il tempo guadagnato grazie alla politica monetaria di Draghi l’Europa e i governi nazionali lo stanno sprecando.
Mario Draghi ha comunicato la decisione del Consiglio della Bce di mantenere invariato il livello dei tassi di interesse che l’istituto di emissione applica ai prestiti alle banche, affermando che la politica monetaria continua a mantenersi espansiva.
Il fatto che l’orientamento della Bce continui ad essere decisamente espansivo rispetto ad una situazione normale – per intenderci prima della crisi – trova conferma anche in analisi molto semplici dei dati. Se pensiamo che il 2% sia un livello desiderabile sia per l’inflazione sia per la crescita economica, possiamo simulare l’andamento "normale" dei tassi per l’area Euro. Con la crisi, la Bce ha abbandonato il sentiero normale dei tassi, abbassandoli sensibilmente con una politica monetaria molto espansiva. Nel 2012 il differenziale tra i tassi normali e quelli effettivamente applicati dalla Bce - lo "spread al ribasso" - è stato in media di 291 punti base. Nel primo trimestre del 2013 i dati sull’inflazione hanno confermato la sua stabilità, mentre l’economia ha ancora rallentato: questo significa che, mantenendo i tassi invariati, lo "spread al ribasso", si è ridotto, ma il differenziale è ancora di 135 punti base. Ma perché la Bce, nonostante un quadro macroeconomico che non è affatto migliorato, è restia ad accentuare il suo "spread al ribasso", abbassando ulteriormente i tassi di interesse?
La risposta è che nelle condizioni attuali, soprattutto dopo il pasticcio Cipro, una riduzione dei tassi rischia di essere addirittura controproducente, qualunque sia l’obiettivo che a tale riduzione si voglia dare.
Abbassare i tassi di interesse può servire per combattere la deflazione, o le aspettative di deflazione. Dall’inizio dell’anno l’inflazione è in linea con il mandato della Bce, oscillando tra il 2% e l’1,7%, quindi appunto sotto ma non lontano il 2%. È una dinamica che piacerebbe molto a tutte le banche centrali, compresa quella giapponese, che infatti ha modificato il suo obiettivo di stabilità monetaria in quella direzione. Al limite è il Giappone che sta copiando il modello europeo; va ricordato, visto che interpretazioni ignoranti e superficiali della politica monetaria vorrebbero far credere il contrario. Quindi abbassare i tassi non serve. Ma ridurre i tassi potrebbe aiutare la ripresa dell’indebitamento dei privati, siano essi imprese o famiglie, quindi dando una stimolo alla domanda. Purtroppo tutta la più recente evidenza empirica – anche i numeri più semplici - mostra che il livello dei tassi di interesse sembra non centrare proprio nulla con la ripresa economica. Dopo la crisi del 2008, ciascun Paese ha dovuto misurarsi con la perdita di output subita: in termini di reddito pro capite, la Francia è ancora sotto del 12%, la Germania ha recuperato tutto, eppure la politica monetaria è stata la stessa; per non parlare del Regno Unito, che è sotto del 22%, con una politica monetaria ancor più espansiva di quella messa in atto dalla Bce.
Tutti oramai sappiamo che quello che conta è la struttura dei tassi e la disponibilità di credito a valle, che non dipende da quello che accade a monte, cioè a Francoforte. È vero che la banca centrale può agire con le cosiddette politiche "non convenzionali", vale a dire agire sulle dimensioni e la composizione del suo bilancio. Ma finora anche le politiche monetarie non convenzionali hanno mostrato una scarsa efficacia.
Le gigantesche iniezioni di liquidità della Fed hanno finora provocato essenzialmente effetti finanziari, come la crescita delle quotazioni di Wall Street, oppure l’aumento della liquidità delle imprese, oppure gli investimenti in case degli investitori istituzionali, ma solo con intenti speculativi di breve periodo. La scelta della Banca di Inghilterra di definire una linea di credito che privilegiasse l’utilizzo per crediti commerciali non ha dato ancora alcun risultato. La stessa Bce ha provato con due diverse politiche a rivitalizzare il credito bancario alle imprese: da un lato, penalizzare i depositi delle banche presso la stessa Bce; dall’altro, allargare i criteri di definizione delle garanzie utilizzabili dalle banche per ottenere il credito. Nessun risultato apprezzabile è stato ottenuto.
In realtà la politica monetaria può essere efficace per la tutela della stabilità monetaria e contribuire alla difesa della stabilità finanziaria, ma non può sostituirsi all’economia reale, rivitalizzando artificiosamente la propensione al rischio e le aspettative di crescita. Il Presidente Draghi continua a ripeterlo: occorrono politiche strutturali ed efficienza nei conti pubblici. La politica monetaria può far guadagnare tempo, consentendo ai governi e alla Ue di disegnare e mettere in atto politiche efficaci, che aumentino la produttività e la competitività.
Altrimenti, abbassare i tassi può provocare un solo effetto: peggiorare ulteriormente i bilanci bancari, soprattutto per quelle banche che fanno attività commerciale e non finanza pura. E questo che si vuole? La credibilità delle politiche europee di tutela della stabilità finanziaria è stata già scossa dalla disastrosa gestione delle vicende di Cipro, non ancora conclusa. Anche all’autolesionismo c’è un limite.