Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  aprile 05 Venerdì calendario

COCAINA IL VIAGGIO ALLUCINANTE DI ROBERTO SAVIANO NEL REGNO DELLA POLVERE


«Come sto? Sono disperato, anche se mi vergogno a dirlo. Per come sono finito... in questa morsa strana tra una vita pubblica totale e la mia vita privata blindata. E proprio mentre esce il libro, e i lettori mi daranno energia... Eppure mi sento come uno che ha sbagliato strada; molte volte ho pensato che non rifarei nulla di quello che ho fatto, che niente vale il prezzo della libertà e della serenità. Altre invece penso che posso farcela. Che valeva la pena. Alcuni anni fa mi hanno offerto di andare in Scandinavia. C’era un Paese che mi avrebbe preso, nuova vita, un’altra identità. Avrei dovuto farlo... E invece ho pensato che avrei potuto far emergere le storie che mi ossessionavano... E così non sono partito e tutto è cambiato, per sempre».
Roberto Saviano ha 33 anni; dall’età di 26 è sotto il controllo totale dell’Arma dei carabinieri, da quando la camorra ha fatto sapere che vuole farlo fuori. Era un ragazzo e aveva scritto un libro diventato celebre: Gomorra. È diventato famoso come una rock star, simbolo di un sud giovane e coraggioso; ma anche l’uomo da evitare, l’oggetto di invidia. Lo leggono in milioni e altrettanti lo guardano raccontare le sue storie in televisione. Auto blindate e diversi carabinieri h 24, non può circolare per Napoli e per l’Italia, la sua vita privata la protegge per non mettere nei guai nessuno, il Viminale decide quello che può fare. È in ansia per i suoi genitori, loro sono in ansia per lui. Non sa in quale parte del pianeta andrà a vivere.
Gli ho parlato a lungo – appuntamento telefonico in un luogo riservato in Italia; io chiamavo dall’altra parte del mondo – il 21 marzo scorso.
Per il nuovo libro, naturalmente. Zero zero zero è l’atteso romanzo sulla cocaina, destinato a diventare bestseller mondiale. In copertina, tre succulente piste di polvere bianca, su un fondo nero brillante che sembra davvero uno specchio. Iperrealistica, troppo vera. Se metterete il libro sul tavolo in salotto, capace che arriva un amico miope, dice «grazie», arrotola la banconota da venti euro e poi fa: «Ehi, ma che scherzo è questo?». Non ci sarebbe da stupirsi troppo: il primo capitolo è uno stupendo montaggio mozzafiato di cento tipi umani che sniffano quotidianamente. Non li vedi?
O sei cieco o stai mentendo. «Oppure, semplicemente, la persona che ne fa uso sei tu».
Ho visto un filmato di Saviano nella stamperia dove allestiscono le prime copie del suo libro. Le riprendeva con l’iPhone. Lo si sente dire: «È come assistere alla nascita di un figlio». Negli stessi giorni l’ho visto in un filmato dei funerali del capo della polizia Antonio Manganelli (un uomo che se avesse avuto tempo avrebbe potuto scrivere un magnifico romanzo sulla mafia, il potere, il coraggio). Saviano sfilava nel corteo funebre un ragazzo col bavero rialzato per il freddo, scortato quasi a testuggine, in mezzo alle autorità; mi ha detto: «Manganelli mi ha aiutato molto; mi ha protetto, mi ha difeso. Mi ha spiegato, quando mi rivolgevo a lui sull’orlo di una crisi di nervi, come fare per abbassare il livello dell’ansia. Aveva un metodo, era un saggio napoletano».
Poi ho visto che era stato consultato da Bersani appena incaricato di formare il governo. E che Bersani, dopo l’incontro, aveva promesso che il suo governo avrebbe messo la lotta alle mafie al primo posto. Allora gli ho scritto una mail, per sapere se sarebbe diventato ministro (mica per altro, per regolarmi sul pezzo da scrivere) e ho ricevuto come risposta: «Non cederò alle sirene dei ministeri, non è il mio mestiere».
Ed ecco il libro. 444 pagine, sette anni dopo Gomorra, il saggio-romanzo scritto per Mondadori, il libro che ha cambiato il modo di scrivere sulla realtà italiana, un calcio alla commedia, all’intimismo e ai cannibali, e che ha generato il migliore film italiano dai tempi del neorealismo: la gomorrah, la brutta vita, di Roberto Saviano – Matteo Garrone come La dolce vita di Ennio Flaiano – Federico Fellini di mezzo secolo fa.
Zero zero zero è il famoso «secondo libro», quello che gli autori temono di più, perché il mondo li sta aspettando al varco. È edito da Feltrinelli, che lo ha voluto come «libro internazionale» da mettere accanto ai suoi gioielli di famiglia, pronto ad essere letto in decine di lingue. L’idea è grandiosa; il protagonista e signore del mondo è una foglia, che diventa una pasta, che diventa una polvere, che diventa una merce della quale masse sterminate non possono più fare a meno. Una sostanza vietata che bisogna produrre, spostare, distribuire, vendere e che produce soldi come nessun’altra merce. Neanche il petrolio le sta dietro; gli iPhone sono una bazzecola. Fa muovere eserciti, determina colpi di stato, spappola le democrazie, costruisce città, salva o affonda le banche, plasma nuove borghesie, fidelizza i suoi consumatori senza bisogno di grandi esperti di marketing, è giudicata indispensabile per la carriera e per il sesso (in realtà una professionista del ramo spiega efficacemente all’autore «la trasformazione del cazzo in cadavere» come effetto dell’uso cronico della coca), spinge all’omicidio di massa, mostra l’esistenza vera del cuore di tenebra della natura umana, illude, poi travolge, ordina, domina...
Zero zero zero è un libro potente, con la muscolatura e i movimenti di un grosso animale, e non lo direste scritto da un giovane. Per le categorie in vigore, non è un romanze perché non ci sono personaggi di fantasia, e quindi è una non fiction novel, secondo il canone di A sangue freddo di Truman Capote. Nella lingua spagnola sarebbe un relato real, e ha un antecedente in Noticia de un secuestro, un’inchiesta sulla Colombia del narcotraffico pubblicata nel 1996 da Gabriel García Márquez.
Teatro del libro è il mondo, trasfigurato completamente da una sostanza, e quindi quasi impossibile da riconoscere e quindi da accettare. Zero Zero Zero segue il metodo di Gomorra. Allora era un ragazzo in Vespa che girava per le lande anonime della Campania e scopriva che c’era qualcosa che non tornava. Troppi soldi. Troppi morti. Un piccolo prete di campagna, ammazzato. Laboratori tessili clandestini, cocaina, kalashnikov, container, discariche di rifiuti, i misteri di un grande porto. Aveva raccontato «il sistema», che doveva rimanere segreto. Dal loro punto di vista – per i componenti del «sistema» –, Saviano era assolutamente da uccidere. Faceva troppo danno. Il presidente del Consiglio, che era anche il suo editore, disse che il libro faceva cattiva pubblicità all’Italia. E dire che era la sua gallina dalle uova d’oro. Oh, quanto ci teneva a che l’Italia non fosse messa in cattiva luce! Sarebbe anche stato disposto a perderci dei soldi!
Zero Zero Zero, come denuncia, è Gomorra al cubo. E Saviano sa che gli porterà un sacco di guai. C’è un sacco di gente che non avrà piacere di vedere il suo nome stampato: ci sono grosse banche con una reputazione. Brokers. Famiglie. Gente di potere. Meccanismi raccontati. Soldi contati. «È tutto vero, il libro ha la disciplina del saggio», mi dice Saviano. «E tutto è stato verificato, un anno di lavoro solo per le verifiche. Effettivamente ci sono molte notizie che prima erano riservate e sicuramente i diretti interessati vorranno sapere da chi ho avuto queste informazioni».
Parliamo in gergo: pensi che Chapo Guzmán (capo del maggiore cartello messicano) metterà un contratto su di te?
(ride). «E chi lo sa? Dipende da come i lettori prenderanno il libro... All’epoca di Gomorra, i casalesi non erano nemmeno il centro della storia. Eppure furono loro a sentirsi attaccati...».
Come hai lavorato?
«Ho incontrato molti pentiti o infiltrati nel narcotraffico. Ho viaggiato con le polizie di mezzo mondo. Ho adottato false identità, nel libro uno lo ringrazio anche, David Dannon: era il mio nome falso, mi ha dato sei mesi di libertà. Ho ascoltato centinaia di registrazioni, ho passato mesi con agenti di polizia. Sono stato in diversi Paesi con mille accrocchi, perché l’ingresso mi è stato praticamente vietato in molti posti per motivi di sicurezza; io in realtà dipendo per i miei spostamenti comunque dai carabinieri e dalla volontà dei governi di ospitarmi. Dalla Spagna al santuario della Madonna dei Polsi, nella Locride, la coca unisce tutte le geografie: una cosa che mi hanno detto, e che mi suona vera è la coca è una pianta che cresce in Sudamerica, ed ha le radici in Calabria. Ho osservato gli arrembaggi dei mossos d’esquadra catalani contro le imbarcazioni dei narcos al largo della Guinea... Lì davvero mi sono sentito Salgari, però nella scrittura mi sono trattenuto. Ma c’era un’epica in quei duelli, per salvare il carico...».
Lo scrittore è il protagonista?
«No, forse lo era in Gomorra; un ragazzo impertinente che andava in giro in Vespa, occupava la strada. Che confusamente sperava che bastasse raccontare per poter cambiare le cose. Adesso è diverso. C’è un uomo diventato adulto, ed è in fuga. Per consolarmi dico che la mia è una fuga in avanti. Ci sono molte caserme, in questo libro. C’è aria di caserma. Stanzette anonime. Incontri non ufficiali. E poi tantissimi verbali. Centinaia di faldoni, pdf di mille pagine ciascuno che ho studiato come i libri fotocopiati quando sei all’università. Leggere, poi individuare "i nuclei" della storia, poi gli elementi curiosi, il modo di parlare. Se incontri uno ’ndranghetista che lavora in Lombardia e dice in un’intercettazione: se semini spine non puoi camminare scalzo... beh, a me viene da cominciare di lì. Poi ci sono le lettere, ne ricevo circa tre alla settimana, persone dell’ambiente del narcotraffico, che vogliono che racconti la loro storia. Il lavoro, alla fine, è fatto di asciugare, controllare, tagliare. Il contrario del romanziere».
Ti ha cambiato?
«Purtroppo sì. Ho subìto una metamorfosi. Sono il più grande drogato di cocaina letteraria che ci sia, la vedo dappertutto. Nei rapporti sociali. Nell’economia. Mi trovo a ragionare come un narcotrafficante, ad entrare dentro la sua scala di valori. Chi mi sta vicino me lo ha fatto notare. Non è che sia diventato più nervoso, o violento, ma mi dicono che sono cambiato, un’ossessione... Ho un precedente, credo. Si chiama Joe Pistone, un agente infiltrato nella famiglia Gambino di New York, quello da cui hanno fatto il film Donnie Brasco con Al Pacino. L’ho conosciuto... La sua vicenda mi ha molto colpito. E pensare che io volevo scrivere un libro come Stephen Hawking, trattare il narcotraffico come la fisica dell’universo, mantenere le distanze... Non so se ci sono riuscito».
L’altra ossessione, Saviano la cita nel libro: è quella del capitano Achab per Moby Dick, la balena bianca, l’animale che si trasforma in Definizione del Male, con la sua forza di attrazione, con il suo invito al suicidio.
«Come Moby Dick, la cocaina scaccia tutti gli altri dalla scena e si impone come unico protagonista. La merce che domina il nostro tempo, come era il Petrolio per Pasolini, il cotone dei romanzi sulla schiavitù, l’oppio per gli inglesi e gli indiani nel Mare di papaveri di Amitav Ghosh...».
Saviano la studia: dove cresce, quando matura, come si essicca, quanto costa trasportarla, che profitto produce, quale nuova classe borghese fa nascere... Quando gli dico che, per questa materialità totale, è l’ultimo scrittore marxista, mi sembra imbarazzato, ma non scontento («Beh, il metodo è quello...»). Lo studio di una merce, la sua influenza sul cambiamento umano, la direzione che imprime all’economia, alla finanza, alla morale si dimostrano un argomento tutt’altro che freddo. Anzi Saviano narra con passione.
Ecco il dimenticato Pablito Escobar, il ragazzo proletario e intraprendente di Medellin che, all’inizio degli anni Ottanta, guadagnava mezzo milione di dollari al giorno, e segnava sul suo registro contabile 2.500 dollari al mese per gli elastici con cui tenere unite le banconote; piuttosto che la prigione offrì alla Colombia di pagare l’intero debito estero del Paese. Ecco l’infiltrato della Dea, Kiki Camarena, che fu ucciso dopo nove ore di torture; mandarono il nastro registrato alla Dea e i poliziotti che lo ascoltarono vomitarono. Ecco la riunione del 1989 ad Acapulco in cui i signori della coca si spartirono i territori, mentre noi – ingenuoni – guardavamo allo sbriciolamento del muro di Berlino e brindavamo alla fine della storia. Ecco la filosofia di vita e di leadership insegnata da un capo anonimo (ma che sembra molto Pasquale Condello, il Supremo della ’ndrangheta), per imparare a comandare: «Diffida di tua moglie, ti tradiranno i tuoi figli», «non essere sensibile nel tuo corpo, ma non trasformarlo in una belva». Oppure la biografia di Salvatore Mancuso, figlio di un contadino di Sapri che divenne il capo degli squadroni della morte colombiani; gli sconosciuti Pasquale Locatelli e Roberto Pannunzi, broker coscienziosi, uno di Bergamo e l’altro di Roma; il marmista che spostò tonnellate di coca al porto di Gioia Tauro; l’ascesa sociale di una reginetta di bellezza, i nomi dei cani più bravi a sniffare e i cani senza nome riempiti di droga e uccisi; il collaboratore Bruno Fuduli che fece sequestrare tonnellate di cocaina e venne lasciato solo con i suoi debiti a gridare su una piazza di Vibo Valentia; l’istituto della decapitazione pubblica delle spie ufficializzato dai cartelli messicani, come parte del loro Narco Stato; la vecchia Griselda, pioniera del traffico, già padrona di Miami, assassina dei suoi mariti, che in carcere ordinava sesso ai giovanotti e aveva un cane di nome Hitler.... Il libro di Saviano non vi fa mancare niente. Compresi i due ritratti finali di giornalisti, uno in Messico e uno in Guatemala, che volevano far sapere le cose e finirono ammazzati. Un triste omaggio alla voglia di raccontare.
Siate voi consumatori (a proposito: Milano è indicata tra i top del consumo mondiale), siate voi amici alla lontana di uno che conosce un pusher, siate voi ingenui sottoscrittori di un hedge fund che vi ricompensa bene in tempi di crisi, siate voi consiglieri comunali in Calabria o in Brianza, questo libro farà fremere – è il caso di dirlo – le vostre narici.
Chiedo a Saviano.
Pensi che dopo questo libro dei consumatori decideranno di smettere?
«Francamente, no. La cocaina non riesce a far paura fisicamente. La sua forza è quella di essere una droga che sta nella vita. Con l’eroina morivi, con la cocaina, no. O meglio hai la sensazione che puoi gestirtela. Questo ne fa il prodotto che è. Anzi, quando descrivo quella di ottima qualità, sono cosciente di favorire la domanda».
Il narcotraffico può essere battuto con la repressione?
«Temo di no. L’infiltrazione nei cartelli è finora l’arma più efficace, ma l’impresa è improba. La potenza finanziaria del narcocapitalismo è oggi immensa. Idem la sua capacità di corruzione».
Ti senti portatore di una missione? Ti senti uno scrittore moralista?
«No, non ho missioni. Quando sono in tv magari posso sembrarlo perché voglio raccontare, e inevitabilmente indichi chi sono i buoni e chi sono i cattivi. Sulla pagina scritta, no. I narcotrafficanti che descrivo, alcune volte, sono delle specie strane, gli ultimi calvinisti del ventunesimo secolo. Sento l’impotenza, sento la solitudine, l’ossessione di raccontare: confesso tutto nell’ultimo capitolo, spero che non mi trovino ridicolo».
Quanto durerà l’era della cocaina?
«Molto tempo. L’unica possibilità di interromperla è la legalizzazione. Non sarebbe una cosa buona, perché si renderebbe accessibile a tutti una sostanza che fa male, molto male, ma farebbe crollare tutto l’impero del narcotraffico immediatamente. Ma non succederà. Dovremo convivere, purtroppo. Contrastare fin quando è possibile».
Zero zero zero* è un libro fascinoso e pericoloso: per narrazione, ritmo, e contenuto. Alla fine, sappiate che non vi farà star bene. E pensate che l’autore sta peggio di voi.

* La spiegazione del titolo è nell’ultima riga: 000 è la farina di migliore qualità.

Enrico Deaglio