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 2013  aprile 05 Venerdì calendario

STONE E IL GUERRIERO CHÁVEZ


Hugo Chávez avrebbe dovuto dormire di più e bere meno caffè. Vorrei che fosse ancora qui». Il regista americano Oliver Stone, biografo in immagini (e agiografo) del defunto presidente venezuelano, in questa intervista con “l’Espresso” ricorda l’amico, prima ancora che il protagonista del suo film-documentario “Chávez - L’ultimo comandante”, girato nel 2009 e presentato al Festival di Venezia, ma che esce solo ora in Italia (il 16 aprile, distribuito da Flavia Parnasi con Movimento Film, evento unico in 150 sale, ma già fioccano le prenotazioni degli esercenti) sull’onda mediatica di una scomparsa universalmente spettacolarizzata e variamente commentata. Un dittatore? L’uomo del riscatto del pueblo? Oliver Stone non ha dubbi: «Non l’ho mai considerato un dittatore. Era carismatico, caldo. Era un “soldato del cuore”. Per il suo Paese ha sacrificato tutto, compresa la salute. Avrebbe potuto vivere più a lungo se non avesse lavorato così duramente in nome del suo popolo».
Il presidente se n’è andato, un tumore, prima ancora di compiere 59 anni. E certo non si è risparmiato. Quando il regista lo incontrò per la prima volta ne ricavò questa impressione: «Quest’uomo è un fenomeno più grande di tutti gli attacchi che gli dedicano i media americani. Certo in Venezuela ci sono ancora molti problemi ma ci sono stati anche tanti miglioramenti». Oggi sottoscrive il giudizio: «Non cambierei nulla del film. Ho fatto ciò che volevo. Una pellicola radicale, diversa. Che ha dato agli americani un punto di vista nuovo sul Sudamerica. Pensavano fosse una nostra colonia o un docile alleato. Non è così e sono contento di aver contribuito a dare una differente impressione ». La pellicola in effetti si apre con alcuni estratti di Fox news o anche della Cnn e altri network, in cui esperti, politologi, sociologi, non usano eufemismi. Chávez è, nel loro verbo divulgato, «un assassino», «più pericoloso di Bin Laden», «più pericoloso di Fidel Castro», «sostiene il terrorismo internazionale». George W. Bush si avventura nell’equazione “Chávez è uguale a Hitler”. Il segretario di Stato Colin Powell e il capo della Cia George Tenet tengono sermoni definitivi contro il «male assoluto», amico di Gheddafi e Ahmadinejad. Messi così artatamente in fila rendono un irresistibile effetto comico. Anche perché sapientemente Stone li affianca a pareri contrari presi «dal vivo» del campo venezuelano. E fornisce delle cifre: con lui la povertà estrema è diminuita del 70 per cento, durante il supposto «regime» più del 60 per cento dei media erano controllati dall’opposizione e gli facevano una feroce guerra». Chiosa Stone: «Hugo è stato eletto per molte volte con metodi democratici. Ci sono state consultazioni politiche e referendum in cui la gente ha votato per via elettronica, sotto il controllo di osservatori internazionali. Se si considera che, negli ultimi anni, negli Stati Uniti ci sono stati sospetti di manomissione delle macchine in occasione di analogo voto elettronico, il Venezuela è un modello di democrazia assai migliore degli Stati Uniti. L’opposizione a Chávez è responsabile di questa distorsione dei fatti ed è finanziata dai ricchi e dalle loro classi sociali che hanno molto odiato il presidente. I media e la classe politica Usa hanno sostenuto questo punto di vista e questo è un buon indicatore dello stato politico e morale dell’America. Che è stata anche coinvolta nel colpo di Stato contro Chávez del 2002, anche se continua a negarlo».
L’episodio è cruciale nel film. Si vedono spezzoni televisivi dove si dimostra che c’era un piano preordinato per detronizzare Chávez, cecchini che sparavano sulla folla dei suoi sostenitori mentre i network raccontavano il contrario. Si sostiene la tesi che Chávez doveva essere il primo a cadere, e poco dopo Saddam Hussein (2003), perché Washington tornasse nel pieno controllo di due Paesi cruciali per le riserve di petrolio. Ma il presidente-fantoccio Pedro Carmona dura poco. Hugo rievoca l’arresto, l’incontro con un cardinale che gli chiede di dimettersi, il duello faccia a faccia contro chi gli puntava un fucile: «In quei momenti ho pensato a Che Guevara che aveva detto “Morirò in piedi”. Sapete perché non mi hanno ucciso? Perché sono un soldato. I parà mi hanno protetto perché sono un leale paracadutista». Viene anche messa a confronto la sua prima campagna elettorale vincente con quella dell’avversaria Irene Sáez Conde, ex miss Universo. La fragilità di quella che noi definiremmo una Olgettina contro il sogno del comandante racchiuso in una frase retorica: «Il potere non appartiene a me ma al popolo».
Il presidente è ripreso mentre torna nel luogo dove nacque «in una capanna di fango con foglie di paglia», la sua parabola ricostruita anche dagli amici dell’adolescenza («giocava a baseball, prima base, e gli interessava solo vincere»), per sottolineare il lungo cammino percorso fino al comando. Ma ora è tempo di bilanci e Stone non si sottrae: «Ha cambiato il sistema che ora è migliore. La stragrande maggioranza dei sottoproletari ha accesso all’istruzione, alle cure mediche, trova un lavoro. Prima di lui il sistema era così corrotto che ha dovuto cominciare da zero. Molte delle persone che sono andate al governo con lui non avevano esperienza e hanno avuto bisogno di tempo. Ora Nicolàs Maduro (il delfino designato e avanti nei sondaggi, si vota il 14 aprile, ndr) troverà parte del lavoro già fatto, ma dovrà battersi duramente contro un’opposizione feroce. Il Venezuela è un Paese ricco e la posta in gioco è molto alta. L’inimicizia degli Stati Uniti continuerà. Dovrà mantenere l’indipendenza da Washington così come dovranno continuare a farlo il Brasile, Cuba, l’Ecuador, la Bolivia».
Benché Chávez sia centrale, è tuttavia riduttivo definirlo un film su di lui. E infatti il titolo originale è “A Sud del confine” (South of the border) perché il viaggio che parte dal Venezuela si dirama in Bolivia, Argentina, Paraguay, Brasile, Ecuador e Cuba. Se L’Avana è il fratello maggiore, gli altri Stati sono dipinti come coloro che hanno raccolto l’esempio chavista di sfida al potere «imperialista» per coronare, due secoli dopo, il sogno di Simon Bolivar. Negli Anni Dieci del nuovo secolo eravamo troppo impegnati a guardare a Sud-est, zona araba, per renderci conto degli sconvolgimenti epocali di quell’area «quasi alla fine del mondo» per dirla con papa Francesco. In questo senso il documentario di Stone è uno schieratissimo compendio di geopolitca che riassume la storia recente. Sul banco degli imputati, accusati di voler imporre la loro legge, oltre alla Casa Bianca e ai suoi inquilini, il potere finanziario e le sue ingerenze nelle decisioni delle nazioni: Wall Street, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e quello che il regista definisce «il sistema degli Stati Uniti». Risiedono ancora nelle mani di pochi i destini del pianeta? Stone: «Sì, ma non per molto. Il sistema mostra delle crepe al suo stesso interno. Le cose sono destinate a cambiare». Il finale di quattro anni fa allargava il cuore alla speranza grazie all’elezione di Barack Obama. Speranza confermata? Stone: «In realtà quel finale apriva all’ottimismo perché finalmente il Sudamerica ha un’agenda indipendente da quella degli Stati Uniti. E perché la popolazione di origine ispanica negli Usa può cambiare l’atteggiamento verso il Sud del continente. Quanto a Obama, invece, sono deluso dalle sue parole e dalle sue azioni. Non ha fatto niente, se non sostenere il colpo di stato in Honduras e insultare Chávez, ignorando quanto di buono ha fatto. Dopo la morte non ha inviato nemmeno le sue condoglianze».
Una lunga schiera di registi, dalla Bigelow a Spielberg, da Affleck a Redford hanno girato di recente film politicamente impegnati. Una tendenza che fa riflettere? «Hollywood ha sempre prodotto film sull’onda della cronaca contemporanea. È uno dei suoi punti di forza. Alcuni sono buoni, altri meno. Una tradizione che continuerà. Molti di questi film sono sottilmente conservatori e propagandano gli interessi e il punto di vista degli Stati Uniti. Esattamente ciò che cerco di evitare con le mie opere, le voglio più radicali possibile ». Il prossimo progetto? «Non so ancora, vedremo. Negli ultimi cinque anni ho lavorato duramente a una “Storia mai raccontata degli Stati Uniti” che presto vedrete anche in Italia. Giro il mondo per farla conoscere. Oltre che per sognare e pensare cose vecchie e nuove».