Alessandro Pasini, Sette 5/4/2013, 5 aprile 2013
IN PISTA VOLO, MA HO PAURA DELL’AEREO
Il motociclista più bravo del mondo – meglio noto come Jorge Lorenzo, campione in carica della MotoGp, da quest’anno nuovamente compagno di box di Valentino Rossi, riparato in Yamaha dopo due stagioni horror in Ducati – è la sintesi perfetta fra il pilota selvaggio degli Anni 70 e il computer infallibile e precisino di Formula 1. Un ragazzo cresciuto in fretta che guida da dio, pensa molto, studia e si studia, legge i libri, si legge dentro e non ha vergogna di parlare di paura, parola tabù secondo una certa retorica da rider duro e puro e invece un fantasma con cui bisogna convivere se si è caduti tanto, ci si è fatti male e si è visto pure un avversario morire.
Jorge in principio aveva una filosofia di guida: “Martello e Burro”, cioè forza del ritmo e traiettorie spalmate. Nel tempo ha aggiunto il Pensiero, che conduce alla costanza nei risultati e alla coscienza del limite: «Correre pensando “o vinci o vinci” non mi piace più. Ero così una volta. Ma, tra avere più infortuni e meno titoli e meno infortuni e più titoli, io non ho dubbi». Un ragioniere della motoretta? No, perché sotto l’autocontrollo il fuoco c’è sempre. Piuttosto, un pilota moderno che sopra le spalle non ha solo il casco: «Tanti grandi sportivi non hanno la testa». Lui modestamente ce l’ha. Ecco perché a 25 anni pare già un veterano.
«Veterano è una parola che non mi piace. Però ammetto che è strano vedere la metà dei piloti Motogp più giovani di me…».
Ha esordito a 15 anni nel 2002. Com’è passato questo tempo?
«Due volte più in fretta che per una persona con un lavoro normale: sempre in viaggio, una gara dopo l’altra, tutto succede velocemente e non te ne accorgi».
Da ragazzo era inquieto, talentuoso ma presuntuosetto, con la faccia da schiaffi.
«Mi fingevo duro per mascherare le mie insicurezze. Ci ho dovuto lavorare».
Come ha fatto?
«Yoga, teatro, libri per imparare a comunicare, ad alimentarmi, a capirmi».
Insolito per uno sportivo.
«Molta gente pensa che vivrà e morirà con le qualità e i difetti con cui è nato. Io no. Sono curioso e penso si possa sempre cambiare».
Chi l’ha aiutata di più?
«Mio padre Chico è stato fondamentale, ma il nostro è stato un rapporto tormentato».
Perché?
«Abbiamo caratteri forti. Ma i genitori vogliono il bene dei figli anche quando sbagliano».
Un giorno ha detto: «Ho giocato meno degli altri bambini». Anche lei, come racconta Agassi del tennis nella sua autobiografia, ha odiato la moto?
«Sono nato per la moto, non le avrei mai dedicato milioni di ore se la odiassi. Certo, non è facile a 5 anni avere disciplina e allenarsi anziché divertirsi. Ma mi è servito».
Cambia manager e collaboratori come certi presidenti di calcio fanno con gli allenatori. Come mai?
«Io sono fedele agli amici. Ma nel lavoro bisogna guardare il proprio interesse e stare con professionisti: se sono il pilota migliore voglio lavorare con i migliori manager, preparatori, nutrizionisti, maestri di yoga… I rapporti di lavoro sono fatti di cicli».
Lei è su Twitter: 700mila followers sono un divertimento o una responsabilità?
«Una doppia responsabilità. Primo perché bisogna non farsi condizionare dai messaggi, buoni e cattivi. Secondo, perché le mie parole ora sono più importanti. I social sono come un coltello: usarli bene o male dipende da te. Il campione ha dei doveri».
Rossi è tornato in Yamaha. Lei si mostra sereno ma sotto sotto è furioso, vero?
«Intanto è uno dei più grandi di sempre. In Ducati ha fallito, ma resta un campione».
Va bene, ma poi?
«Nessun problema. Saremo un grande team».
Nel 2010 lei vinse il Mondiale con Rossi compagno di Yamaha penalizzato da un infortunio. Molti dissero che con Valentino sano sarebbe andata altrimenti. Ora potrà dimostrare che non era vero.
«Chi non tifa per te trova sempre un modo per sminuire le tue vittorie... La caduta di Valentino nel 2010 è una cosa che capita nel nostro sport. Riparlarne non ha più senso».
Lei ha definito Rossi-Lorenzo 2013 come Senna-Prost 1989.
«Sì, però loro erano davanti a tutti! Visto come sono andate forte le Honda di Pedrosa e Marquez nei test, spero non siano loro a fare Senna e Prost…».
A proposito di Honda: le ha fatto una grossa offerta ma lei non ci è andato. Lì non avrebbe avuto Rossi. Rimpianti?
«No. La Yamaha è una famiglia».
Vuole dire che si può ancora scegliere solo col cuore?
«Quanti giocatori hanno cambiato squadra per soldi e poi si sono trovati malissimo? Però sono sincero: le offerte economiche di Honda e Yamaha erano simili. Se fossero state molto diverse, chissà…».
In carriera ha sofferto molte brutte cadute. Che cos’è sentire l’asfalto?
«Un dolore inspiegabile. L’adrenalina e le protezioni lo alleviano, ma è dura».
Dopo come si rimuove la paura?
«Pure quello è inspiegabile. In Cina nel 2008 cado il venerdì e mi rompo entrambe le caviglie. Il sabato sono già in moto infiltrato fino agli occhi. Parto in qualifica, scivolo ancora, sembro un cowboy al rodeo, non cado per miracolo. Mi spavento tantissimo. Rientro ai box e cosa faccio? Chiedo un’altra gomma e torno in pista!».
Un eroe?
«Un ventenne incosciente. Non lo rifarei».
Una sua ferita ancora aperta è la morte di Marco Simoncelli. Allora disse: «Non eravamo amici, ma rimpiango di non avergli spiegato il senso delle mie critiche».
«Qualche gara prima che lui morisse litigammo: io l’ho aggredito verbalmente e lui era rimasto sulla difensiva. Non abbiamo mai chiarito. Avrei dovuto essere più calmo, dialettico, comprensivo».
In quei giorni ha pensato di ritirarsi.
«La carriera è niente rispetto alla salute, alla vita. Poi ho pensato di continuare cambiando prospettiva: più prudente, con un altro stile, minimizzando il rischio».
Filosofia perfettamente applicata nel 2012: pilota-chirurgo e in cima al mondo.
«Per conquistare un Mondiale ci sono due vie: provare a vincere più Gran premi o fare sempre il miglior risultato possibile. Io studio i miei limiti su ogni pista e so accontentarmi di un secondo o un terzo posto».
È questa la metamorfosi da talento a pilota moderno?
«Sì. Da giovane sbagliavo. Ora un allarme interiore mi dice quando e dove limitarmi».
Ha ancora difetti?
«Tanti! La staccata, la guida sul bagnato, una certa impazienza».
E nella vita?
«Sono sempre in ritardo e davanti a un videogame posso stare ore. Non mi piace, ma è un vizio migliore di altri…».
Certo che voi piloti siete serissimi: perfezionisti, salutisti, astemi, quasi noiosi.
«C’è talmente tanto equilibrio che i dettagli sono decisivi. Non puoi mai distrarti».
Soprattutto a 340 all’ora.
«Ma lì sei in rettilineo, non è tremendo. Più dura è in curva a 250 a Phillip Island, in quarta, scivolando sulle buche. Di peggio c’è solo un’altra cosa».
Quale?
«L’aereo. Ci vivo metà vita e non mi sono abituato. Passo il tempo a guardare l’espressione delle hostess per capire come va».
Lo sa perché, vero?
«Già. Non guido io, non ho il controllo. È allora che mi sento fragile».