Mirella Serri, Sette 5/4/2013, 5 aprile 2013
IL GIRO D’ITALIA? UNA CORSA NELLA STORIA
IL GIRO D’ITALIA? UNA CORSA NELLA STORIA –
Una sassaiola accoglie il gruppone in fuga che sbuca ansimante dalla curva. La volata si infrange e finisce a ruzzoloni sulla strada disseminata di ostacoli tra cui un gigantesco baule. La truppa su due ruote dovrebbe toccare Trieste ma nuclei di esagitati della “Osvobodilna fronta” (Fronte di liberazione sloveno) innalzano cartelli con la scritta “Via dalle terre di Tito!”. La sfida della pace e della ricostruzione del 1946 sta per fallire tra le pistolettate non solo in aria. Ma, poi, ecco un coup de théâtre: arriva un camion, parte dei corridori vi salgono, raggiungono la litoranea triestina. E lì ad attenderli c’è una folla incredibile che fa ali al grido di “I-ta-lia” e porta in trionfo i ciclisti. Questo esito inaspettato anticiperà e accompagnerà i movimenti popolari e le azioni diplomatiche per il ricongiungimento di Trieste all’Italia. E non fu l’unica volta in cui il Giro fu un terreno di acceso confronto politico e sociale. Fin dalla sua nascita l’agone in bicicletta mostra il suo volto più anticonformista e pure sovversivo: “Me brüsa el cü”, così Luigi Ganna, il trionfatore nel 1909 del primo Giro d’Italia, rispose a chi gli chiedeva come si sentisse mentre tagliava il traguardo dopo 8 tappe e 2.448 chilometri. Questa constatazione senza peli sulla lingua fu la griffe o marchio di fabbrica che indicava il carattere popolare e pugnace di questa faticosissima lizza, il piglio baldanzoso e provocatorio che connoterà la celebre prova come un ring capace di catturare il plauso delle masse, di essere luogo di zuffe, opposizioni, risse spesso in contrasto con potenti e poteri costituiti. A raccontarci l’avventurosa storia è la bella ricostruzione di Mimmo Franzinelli, Il Giro d’Italia. Dai pionieri del Giro a Torriani (Feltrinelli, pp. 352, 20 euro), che utilizza testimonianze orali e carte inedite tratte dall’archivio del patron del Giro, Vincenzo Torriani che organizzò la gara fino al ’92. Il ciclismo come agonismo è appena nato e già molla sberle e si riveste di valenze laicistico-massoniche, e persino anticlericali, nella corsa Milano-Roma, occasione per i fans scatenati di celebrare la ricorrenza della breccia di Porta Pia che travolse il potere temporale del papato. Il primo vero professionista italiano, Giovanni Gerbi, fu detto “il Diavolo rosso”: abbigliato di scarlatto terrorizzava parroci e perpetue con il colore dei socialisti. L’Associazione che più prendeva piede era quella dei ciclisti dotati di biciclette Avanti! e pneumatici Carlo Marx che distribuivano dispacci e giornali nel biennio dell’occupazione delle fabbriche.
I professionisti violano spesso regole e buone maniere: Giovanni Cuniolo, ex podista, è soprannominato non a caso “manina” per il vizietto di farsi aiutare da spintoni e pugni per tagliare il traguardo. Anche gli spettatori partecipano del clima rovente spargendo chiodi per avvantaggiare i favoriti oppure balzano sugli inseguitori, li percuotono, distruggono le bici: come accade a Bologna quando il pubblico invade la pista.
Il bastone tra le ruote. Lo stesso mezzo, il cavallo d’ acciaio, è considerato uno strumento eversivo: a Milano, capitale delle due ruote, verso la fine dell’800 si accumulano divieti oggi impensabili pure per un ragazzino al volante di una macchinetta elettrica: è proibito circolare dalle 15 alle 22, è necessario il patentino di guida e si sborsa una tassa consistente. Cesare Lombroso addita la bici “come stromento del crimine” ma il “ ferreo corsier” piace molto agli artisti più irriverenti: Emilio Salgari ne canta il dinamismo ne “Al polo australe in velocipede” e lo celebrano futuristi come Umberto Boccioni, Mario Sironi, Fortunato Depero. Proprio per il tratto più anarchico e incontrollabile, il ciclismo e in particolare il Giro sono invisi a Mussolini che ama sport più “nobili”, come automobilismo, equitazione, tennis e sci. Il Duce mandò veline alla stampa perché ne parlasse come di una competizione non adatta a “garantire l’educazione militaresca”. Gli atleti rendevano omaggio tutti gli anni alla tomba della mamma del dittatore, a Predappio, ma non riuscirono ad allontanare i sospetti che tra loro vi fosse più di un focolaio di “infetti”, di sportivi che non si piegano al diktat dittatoriale: il simbolo di questo oltranzismo sarà il clamoroso “caso” di Ottavio Bottecchia, il primo italiano a vincere il Tour de France. Il 3 giugno 1927 Ottavio viene trovato agonizzante e le indagini ufficiali parlano di “morte accidentale”. Qualche giorno prima, ricostruisce Franzinelli, aveva rimandato al mittente ben 100 mila lire offertegli come risarcimento per l’incidente in cui era morto suo fratello Giovanni. Era stato investito da un’automobile guidata da Franco Marinotti, amico personale di Mussolini, vice podestà di Milano. La sparizione di Bottecchia fu probabilmente frutto di violenza politica e aiutò a consolidare l’immagine del ciclismo antifascista e in contrasto con i valori virili e bellicisti dell’“atletismo politico”. Nonostante il fascismo mettesse, è il caso di dirlo, il bastone tra le due ruote, il successo di questo sport fu sempre crescente. Ad alimentarlo c’è l’antagonismo tra i due fuoriclasse, l’Airone, Fausto Coppi, e Bartali che non gli risparmiava gli epiteti offensivi come “acquaiolo” (uomo senza personalità che allunga il vino con l’acqua). Nel dopoguerra la bici è ancora più presente: a Bartali va il merito di allontanare lo spettro della guerra civile, dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. La sua vittoria al Tour di Francia in quei drammatici giorni, quieta e rasserena gli animi. Il ciclismo negli anni postbellici esibisce il piglio scanzonato e irriverente: gli italiani in democrazia gorgheggiano Bellezze in bicicletta, lanciato dal Quartetto Cetra e poi da Mina e dall’Orchestra italiana di Renzo Arbore, il film Totò al Giro d’Italia porta la conquista della maglia rosa sul grande schermo e Gianni Rodari consacra nella Filastrocca del gregario il “corridore proletario, che ai campioni di mestiere, deve far da cameriere”. Si conferma, comunque e sempre, come la contesa più popolare: nella seguitissima trasmissione televisiva, “Giro a segno”, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello mettono a confronto il corridore che non sa l’italiano e un aristocratico appassionato di discipline blasonate come tennis e ippica. I “girini”, emblema dei povericristi, corrono nel Friuli colpito dal terremoto del maggio 1976 o scendono dal sellino per offrire il loro appoggio ai metalmeccanici riuniti in sit-in di protesta. Intanto però il vento sta cambiando: il “cannibale” Eddy Merckx, che vestì di rosa 77 volte, risulta positivo all’antidoping, fa uso di femcamfamina. L’epoca delle corse epiche, avventurose, solidali con la povera gente, manifestazione dell’animo più schietto, tumultuoso e verace, è terminata: il pluricampione detronizzato per aver usato sostanze dopanti, Lance Armstrong, in un’intervista a Oprah Winfrey spiegherà che i corridori hanno sempre cercato “un aiutino”: un tempo ci si aggrappava ai treni ora ci si aggrappa all’eritropoietina. Dimenticando che attaccarsi al treno non costava niente, anzi era espressione della matrice originaria, dello spirito libero e pauperistico, strafottente e irriducibilmente irriverente del ciclismo.