Cesare Fiumi, Sette 5/4/2013, 5 aprile 2013
BUIO IN SALA, IL DIGITALE SPEGNERÀ I PICCOLI CINEMA
Addio alle armi. Si depongono a uno a uno i vecchi proiettori e il soldato Mario, Mario Martelli da Sasso Marconi, mostra la sua garitta, che da domani non sarà più la stessa, con l’aria di chi si congeda da una stagione lunga più di un secolo, vestendo già i panni del custode di un museo. Ecco la feritoia da cui scrutava che lo scorrere della celluloide avesse campo libero. E, poi, le pellicole accatastate tra moviole e nastri adesivi come vecchi proiettili presto arrugginiti. Infine, ecco la bocca da fuoco di cui conosceva ogni pezzo e che s’incaricava di ricaricare ogni volta tra primo e secondo tempo. E sembra una nemesi crudele che il verbo che la sta pensionando, così come va pensionando Mario e il suo mestiere, sia esattamente il suo opposto: scaricare. E che la nuova parola magica, che manda in soffitta la lanterna magica e le dita di Mario, sia beffardamente proprio: digitale.
«Ecco il mio tesserino da operatore cinematografico». Il suo tesserino di fuciliere scelto dei sogni, ché il cinema è sempre stato la proiezione della sua vita, rilasciatogli dalla Prefettura di Bologna il 6 giugno 1984: “Operatore cinematografico”, da quasi trent’anni, ufficialmente, ma la prima volta in cabina ne aveva solo sette: «Quel pomeriggio davano Ben Hur».
Una cabina che, oggi, è come l’avamposto degli uomini perduti per il cinema, per dirla con un vecchio western con Gregory Peck: innamorati del suo rumore da mitragliatrice con il silenziatore. Di quel trottare dell’antico proiettore che qualche volta rompeva, come qualsiasi cavallo di razza, o magari mandava in fumo la pizza che stavi divorando con gli occhi, ma aveva bisogno di mani rapide ed esperte per rotolare fino in fondo: quel vecchio proiettore che, arma e anima dai Lumière a oggi, saluta e se ne va.
Durata inferiore. Perché ora è tempo di switch- off. Se ne sono andati i dischi e i cd a forza di scaricare; i libri stanno con un piede qui e l’altro là, come pure i giornali; gli schermi tv sono diventati on demand – ovvero: se paghi ti faccio vedere – e, alla fine di quest’anno, chiude i battenti anche il Vecchio Cinema Paradiso. Basta pizze a domicilio: le case cinematografiche, majors americane in testa, non produrranno più in pellicola: nelle sale tutto e solo in digitale. Il che equivale, come accaduto per le piccole librerie e i negozi di (sola) musica, a mettere in crisi, e in molti casi a condannare, gli ultimi monosala (specie i cinema di paese, ma ce ne sono anche in città) che hanno resistito fin qui senza diventare né multi né plex. Ma mantenendo viva proiezione e passione anche nel cuore delle piccole realtà.
Perché l’avvento del digitale li obbliga subito a sborsare tra i 40mila e i 60mila euro per dotarsi di un nuovo proiettore che «per altro avrà vita breve, 10-15 anni non di più, per non parlare del costo delle lampade che si consumeranno molto più velocemente», spiega Mario seduto in garitta. «Il comune, a cui appartiene la sala qui a Sasso, sembra intenzionato a fare uno sforzo se la Regione lo aiuterà, coprendo l’altra metà dell’importo. Ma io immagino già che finirà come con le lavatrici: il digitale avrà una sua data di scadenza e un bel giorno il tasto da schiacciare, non dovrò fare nient’altro, la smetterà di funzionare. E pensare che questo vecchio proiettore va avanti dagli anni 70: solo tre volte s’è fermato e sempre l’ho aggiustato. Ricordo persino la prima e l’ultima volta che è accaduto: mentre proiettavo Spiriti nelle tenebre con Michael Douglas e Match Point di Woody Allen. Ora potrò pure appisolarmi, io che in cabina non mi sono mai addormentato».
Belli ma poveri. Non è solo questione di artigianato che si perde o di nostalgia per quelle pizze di celluloide che bruciavano come in Bastardi senza gloria, ché ormai le pellicole sono da tempo ignifughe. È che ad andare in cenere, con il switch-off imposto dall’industria Usa, dove il 90% delle 40mila sale è già digitalizzato (mentre la media Ue è del 70%) non sarà mica l’Hitler o il Goebbels di Tarantino ma, complice la dittatura del business digitale, la stessa fruizione cinematografica nel nostro Paese dove la digitalizzazione, quando mancano appena nove mesi alla scomparsa delle pellicole, copre soltanto il 58 per cento delle sale.
E non potrebbe essere altrimenti visti i conti in rosso: dieci milioni di spettatori in meno nell’ultimo anno (101 milioni i biglietti staccati nel 2011, solo 91 milioni nel 2012) e incassi in calo di 53 milioni di euro. E allora, se in Italia sono quasi 800 gli esercizi chiusi nell’ultimo decennio, cosa accadrà di qui a dicembre nelle 1.178 monosale (più di un quarto del totale) presenti ancora sul territorio e obbligate a trovare il denaro, tanto denaro, mentre il Paese barcolla sotto i dati da brivido della soglia di povertà?
«Ho introdotto il digitale nel 2010, sono stato il primo in Chianti, e spero di aver fatto la scelta giusta visto che il nuovo proiettore presto sarà già obsoleto», sorride amaro Raffaello Ferruzzi, 70 anni, patron del “Boito” di Greve, esercizio di famiglia da 400 posti. «Il cinema va male, dappertutto. E in un paese come Greve, che fa solo 3.800 abitanti, ancora peggio. Ormai è un cinema per adulti, nel senso che qui i giovani vengono solo se programmi film troiai, come li chiamo io. Per esempio, ho riempito la galleria per I due soliti idioti ed è stato uno spettacolo surreale: in platea silenzio di tomba perché non c’era un adulto; di sopra, invece, silenzio... religioso, perché i ragazzi non volevano perdere le bischerate che dicono nel film. Pensa come siamo messi. Dopo gli Oscar ho dato Amour, premiato come miglior film straniero, ma il venerdì sera sono arrivati solo due spettatori. E siccome li conosco gli ho chiesto, se potevano, di tornare la sera dopo, ché tra luce e riscaldamento non ci stavo dentro. Sabato, compresi loro, c’erano sette persone. La tv e i videogiochi l’han morto il cinema. Mi tiene in piedi solo la passione. Ma, come si more io e la mi moglie, i figli vendon tutto». Compreso il nuovo proiettore digitale, già in odore di svalutazione quanto a valore.
Ricchi ma polli. Pochi chilometri di vigne e ti ritrovi nell’ennesimo L’ultimo spettacolo: Radda come l’Anarene di Peter Bogdanovich, con Giuseppe Ruffoli e Pietro Stazzoni, nella parte di Ben Johnson: «Abbiamo resistito fino a oggi, mentre Gaiole ha chiuso la sala e Castellina programma solo per bambini. Abbiamo tenuto i prezzi bassi: 5 euro il venerdì, 6,50 sabato e domenica, ma non puoi più andare avanti in un paese di 1.500 abitanti se devi passare al digitale. Fin qui noleggiavamo le pellicole a due/tre settimane dall’uscita in modo da non pagarle più di 400 euro: e ora dove li si trova i soldi per il nuovo proiettore? La sala è proprietà della Misericordia e noi siamo tutti volontari come gli infermieri dell’ambulanza qui davanti. E solo nella misericordia, maiuscola o minuscola che sia, ci tocca sperare. Quei baracconi che sono nati qui intorno, quelli che sono stati la nostra rovina, loro sì che possono permetterselo di investire».
I “baracconi” sarebbero i vari multisala-al-popcorn, già passati al digitale. Quelli che Mario da Sasso Marconi chiama «i mostri». E che Sandra Di Maio, 57 anni, del cinema “Castello” di Firenze, descrive come un ritrovo «per i polli di batteria» e «luoghi dove non c’è rapporto umano». Lei gestisce una sala di quartiere che, d’estate, propone pure la stagione all’aperto. Ma un proiettore digitale, molto più pesante e delicato, poco si addice a saltare da dentro a fuori come il buon vecchio arnese: «E pensare che la crisi economica a noi ci ha aiutato a staccare più biglietti. La domenica c’è sempre più gente che forse non va più in gita o al ristorante ma sceglie il cinema. Però come si fa a pagare certe cifre? Cercheremo un proiettore di seconda mano sperando che qualcuno ci aiuti, altrimenti giù il siparo».
Brando a cena. Hanno tutti un loro bar questi cinema di Toscana, quarta regione per monosale – ne conta 118 e sta dietro solo a Lombardia (150), Emilia Romagna (132) e Veneto (124) – e «spesso facciamo più soldi con la birra che coi biglietti», spiega Giuseppe di Radda. Per questo c’è chi prova ad allargare l’offerta, come i tre soci del “Lanteri” di Pisa, Luca Teti in testa, dottorando in Fisica, che, assieme ad Alessio e Andrea, offre pure una sala “pasto”, tipo diner americano dove puoi farti un Mastroianni oppure un panino Marlon da 4 euro con provola, salame e pomodori secchi: «In modo da attirare gli studenti dell’università vicina, altrimenti vanno tutti ai multiplex. Da noi viene un pubblico più anziano, lo vedo dai ridotti che stacchiamo». Il cibo come esca per avere altri spettatori e pagarsi il costo del digitale: «Anche se sulla programmazione bisogna andare cauti, perché la sala è della Chiesa e i film che non hanno il marchio della Cei non si possono passare, a meno che il “non approvato” arrivi a film già bello che dato, com’è successo di recente per E la chiamano estate con Isabella Ferrari un po’ osé».
È quello del pubblico giovane il tasto dolente per chi deve decidere se chiudere o spendere. «È dura attirare i ragazzi. Per loro la sala di paese non “è di moda” a differenza del multisala: eppure sono loro l’unica possibilità di un futuro se vuoi investire nel digitale», racconta Paolo Gelli, 42 anni, che fa il proiezionista proprio in un multisala (a Firenze) ma ha preso in gestione l’Odeon di Ponsacco, davanti al quale due ragazze si danno appuntamento per la sera, convinte dalla locandina de Il principe abusivo. «D’0ra in avanti non potrò permettermi di sbagliare un solo film. Ho creduto in The Master ma qui è stato un mezzo flop. Con il cinema d’essai, poi, neanche a parlarne. In paese non c’è abbastanza pubblico e quello che c’è, mentre ne cerchi un’altra giovane fetta, mica lo puoi tradire. Parlo di quelle signore, età media ottant’anni, alle quali, appena presa in gestione la sala, chiesi: “O quante belle bimbe tutte insieme stasera: e i vostri mariti, dove li avete messi?” E loro: “Sottoterra”». Programmazione orfana di giovani e ricca di vedove, non proprio una scommessa facile.
E invece devi incassare, e bene, per ammortizzare un proiettore digitale, nonostante gli aiuti garantiti dalle Regioni. Aggiunge René, 30 anni, proiezionista dell’Agorà di Pontedera: «È assurdo che per continuare a vivere, una piccola sala debba seguire il modello di digitalizzazione dettato dai multiplex che spesso offrono film scadenti e ammazzano l’idea di cinema e di un certo modo di vivere la sala e la proiezione». Perché anche dove il pubblico è in crescita si rischia di dover chiudere. Ed è il Nuovo Cinema Paradosso.
Dove in tanti, se vorranno vender cara la loro pellicola, la loro stessa storia, dovranno cambiare pelle. «Passare al digitale sarà la morte definitiva del cinema, sarà come stare davanti alla televisione», dice Francesco Sassone, 71 anni, per una vita alla s.a.c di Bologna, uno dei tanti magazzini di distribuzione che chiuderà. E Leonardo Orsini, 48 anni, della Cinemec, storica casa fiorentina di proiettori: «Abbiamo spedito l’ultimo vecchio esemplare all’ambasciata britannica in Giappone, che l’ha acquistato per la sua cineteca. Ora che siamo passati a produrre i modelli digitali tanti piccoli cinema di provincia ci chiamano, dalla Puglia all’Umbria, per avere un preventivo di spesa. E quando sentono il costo, molti ti spiegano che non ce la possono fare e che cesseranno l’attività. Per non parlare delle rassegne estive che saranno rarissime. Deprimente».
Albero, zoccoli e Natale. I titoli di coda di questo malinconico remake, attraverso l’Italia, de L’ultimo spettacolo a Davide Borghini da Lerici, 33 anni, fino a domenica scorsa gestore dell’Astoria. «Sì, ho lasciato a Pasqua, dopo dieci anni di gestione. Troppo attaccato al mezzo professionale, al cinema che ho imparato ad amare, per passare al digitale. Lo farà qualcun altro al posto mio. Mi sono innamorato del cinema guardando L’albero degli zoccoli di Olmi e non ho più smesso di appassionarmi. Il pubblico qui a Lerici ha risposto bene: tanta gente d’estate, anche grazie ai villeggianti, ma 150-160 persone anche nei fine settimana d’inverno. Ma questo passaggio forzato non mi piace: non mi piacciono i tempi capestro né il denaro pubblico che se ne andrà per aiutare le piccole sale, come l’Astoria, solo perché quattro case americane hanno deciso di farci pagare il loro business. Così un film si snatura: il digitale è freddo, basta guardare un vecchio film sul nuovo supporto, mentre la pellicola, con il suo calore e i suoi colori, era il suo Dna». Questione di ereditarietà.
Fine della pellicola, si riaccendono le luci in sala. Ma tante piccole sale, sotto l’albero del Natale digitale, non accenderanno più le magiche luminarie di un proiettore.
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