Stefano Pistolini, Rolling Stone 29/3/2013, 29 marzo 2013
LE MIE VISIONI
Quando, in questo incontro milanese, accalorandosi Gianna mi dice: «Io, con la voce, vedo», io, invece, mi sciolgo. Si sia suoi fedelissimi fan o meno, Nannini porta la forza con sé. Un impeto vitale che spedisce in soffitta l’anagrafe, un rifiuto organico delle convenzioni che riconcilia con un’idea ormai rara della musica. E un corpo elettrico che ti rimbalza di fronte, mentre parla, starnutisce, fa 360° su se stessa, si fa una domanda e da la risposta, parte per la tangente e torna come un boomerang. Si finisce per ascoltarla rapiti, traslocando nella sua voglia benedetta lei, che ne ha ancora tanta. Un’artista come Gianna Nannini da senso a certe cose, che oggi, talvolta, sbandano affaticate. Lei crede, ha sempre creduto. E poi fa, con tutta se stessa. Quando le domando cosa pensa sia fondamentale in ciò che realizza, risponde: «Avere una visione. La mia voce è il pennello», dice, «che dipinge la visione che ho intuito». Cita Conny Plank, il suo sempiterno guru: quando davano gli ultimi tocchi ai loro album, tinteggiando col sintetizzatore, era come se Conny le mostrasse madonne senesi e ricami preziosi. Slanci e visioni: ecco il mondo di Gianna Nannini. Per andarle dietro bisogna allacciarsi le cinture a doppia mandata.
Gianna, com’era ai tuoi inizi? Cos’eri musicalmente, cosa cercavi? A 5 anni, a Viareggio, sono montata da sola su una sedia e ho cantato: “Ciao ciao bambina...”. La voglia di cantare ce l’avevo addosso, di nascosto ovviamente, davanti allo specchio, col manico della scopa che fingevo fosse il microfono. Roba di campagna. Poi arrivò il pianoforte in casa e anche un maestro, ma di musica classica, che non era ciò che volevo. I miei idoli erano i cantanti, Morandi, Ranieri e Modugno. In casa sentivo l’opera e per strada i contadini intonavano tutto il giorno i canti popolari toscani — è quella che avrebbero chiamato “tradizione orale”, no? Essere nata in contrada m’ha segnato la direzione, anche se il passo per arrivare da lì a Conny Plank sarebbe stato andar via da Siena a 18 anni e cercare di fare la mia strada, a Milano, bussando alle case discografiche.
Com’era la Milano del music business? Sono arrivata che venivo dai concorsi voci nuove. Ne avevo fatti tanti, tipo il Pallone d’Oro di Massarosa, il Margherita di Viareggio... Mi presentavo tutta vestita di pelle...
La ragazza rock! Mi proteggevo col vestito. Mi dava sicurezza. Volevo essere notata, pensavo che, avvolta nella pelle, mi avrebbero guardato. Facevo i miei primi pezzi come Vento o Un amico soltanto. Da sola con la chitarra, che studiavo da autodidatta: le canzoni degli altri, tipo quelle di Ranieri, mica le suonavo troppo. Le sapevo, ma pensavo a fare le mie.
Però Massimo Ranieri t’aveva colpito... Un giorno l’andai a trovare in motorino. Entrai nel suo albergo... Ero piccina, avevo 14 anni. Lui lo sa, gliel’ho raccontato. Mi piaceva il suo modo di cantare in napoletano, m’era piaciuto ’O surdato ’nnamurato con la Magnani. Però, quando mi mettevo a fare le mie canzoni, entravo nel mio di mondo, nella mia malinconia del tempo. Cantavo delle melodie e ci buttavo addosso la chitarra, alla ignorante. E i concorsi li vincevo: facevo una canzone mia e una di Battisti. Serviva a incoraggiarmi, perché la famiglia non voleva e io ai concorsi ci andavo con una zia che mi portava di nascosto. Poi tornavo e dicevo che ero stata al mare. I miei l’hanno scoperto quando me ne sono partita per Milano. Pensavano fosse uno scherzo: «Massi, vuoi fare la cantante, le passerà».
Siamo tra il 1973 e il ’74. È a questo punto che entra in ballo un personaggio dimenticato: Gino Mescoli, scopritore di talenti. Fu il primo a scoprirmi. Venne a Siena e cantai per lui al piano. “Questa è forte”, pensò, e mi spinse a salire a Milano. Tentai alla Ariston e poi alla Numero Uno di Battisti, dove il produttore era Claudio Fabi e il direttore artistico Mara Maionchi. Mara, quando io mi misi a suonare, cominciò a piangere. Pensai: “Accidenti, faccio proprio schifo”. Invece mi presero. Dissero che avevo bisogno di un po’ di training e mi sistemarono in un gruppo, i Flora Fauna e Cemento, con Mario Lavezzi e Gianni dei Ribelli alla batteria. Ma ci rimasi solo il tempo di un 45 giri.
Il pezzo si chiamava Congresso di filosofia, sembra roba importante... Infatti vinse la Skif Parade. Comunque, mi fecero il contratto con la Numero Uno. Fabi cominciò a lavorare con me, mentre Battisti lo vidi una volta sola. Mi doveva scrivere un pezzo, ma non funzionò.
Che pezzo era? Poi lo cantò Pappalardo, faceva “con il martello si romperà l’amor”, uno dei brani più brutti di Battisti e Mogol più brutto di così si muore. Alla fine, convinsi Claudio Fabi a farmi fare il primo album con tutti pezzi miei e con le mie ingenuità. Claudio mi traghettò alla Ricordi e mi lasciò così com’ero, non correggeva i miei errori, quasi li esaltava. Mi permisero perfino di metterci quei violini che, anni dopo, quando Conny Plank lo sentì, disse che già “facevano Gianna Nannini”.
Da qui al rock il passo è lungo: stavi diventando una cantautrice tradizionale... Crescevo liberamente. Mi seguiva da vicino Gianfranco Manfredi, che diceva che era importante che facessi dei dischi in cui parlavo di me. Al tempo c’era il principio che il personale fosse politico e io frequentavo la Milano off, i gruppi di autocoscienza... Intanto di dischi se ne vendevano pochi, ma si facevano tanti concerti. Mi considerarono subito una che cantava le proprie storie e questo era considerato un gesto politico. In verità, io scrivevo d’istinto, senza neppure star dentro al ritmo. Fu Claudio Fabi che pensò di darmi una spinta nella direzione del rock, facendomi collaborare con la PFM. A vederla oggi fu una mossa innovativa, che però snaturò i miei pezzi, perché la PFM all’epoca suonava progressive e metteva un sacco di roba dentro la musica. Io, di nuovo, puntai i piedi. Non m’apparteneva quel genere. Al limite, andavo verso il punk. A quei tempi sentivo i Sex Pistols e i Clash e mi piacevano. Alla fine fu solo col terzo album G. N., quello di America, che lavorando col chitarrista Mauro Paoluzzi, uno che suonava rif belli duri, virai decisamente verso il rock. Non a caso ebbi successo prima in Germania che da noi. Qui aprivo i concerti di Guccini, facevo un po’ Janis Joplin ed era tutto un: “Scema, scema”.
Se butti un’occhiata a quella ragazza di molti anni fa, come ti sembra? Mi piace, ero una persona cruda, ma che credeva. Quando mi vedo in America che faccio le seghe al microfono con la giacca di pelle, dico: “Ganza. Ingenua, ma convinta. Pura”. E poi nel giro del rock mi sentivo bene.
Veniamo al presente: il tuo modo di lavorare è fatto di un piccolo gruppo con cui sviluppare la tua musica. Sì. Con la tua gente senti la vibrazione. A WIll Malone, per esempio, ho fatto la corte. Quando è morto Conny Plank, trovare il produttore giusto è stato un problema. Ne ho cambiati quattro. A quell’epoca Malone si occupava solo d’arrangiare gli archi per gente come Depeche Mode e Verve. Gli chiesi se gli andasse di fare una produzione, ma disse di no, perché i discografici non gli piacevano. Voleva occuparsi solo di arrangiamenti. Un giorno poi gli mandai i provini della Pia e lui mi ritelefonò: gli erano piaciuti. Vado a Londra e gli propongo di arrangiare tutto il lavoro, ma quando lui accetta, viene fuori che i costi sono insostenibili. Così tocca a me doverlo scaricare. Ero mortificata. “Però, se vuoi, si fa insieme il mio disco”, gli dico. E lui capitola. Così è nato Grazie, s’è fatto Sei nell’anima e s’è aperto un mondo. Ed è nato un nuovo team. Will ha creato un suono solo per me.
E com’è andato lo sbarco a Abbey Road per Inno? Noi andavamo a Londra agli Olympic Studios, poi hanno chiuso. A quel punto, se vuoi registrare gli archi come si deve, la scelta di Abbey Road è obbligata. Lo Studio è una bomba, il banco è alla frontiera della tecnologia, la microfonia è puro stato dell’arte. Oggi, per fare un disco, devi far bene i conti. Io, ad esempio, non bado a spese: il minimo garantito lo investo tutto nella produzione. Devo fare il massimo, per il disco che ho in mente.
La novità è questa collaborazione con Tiziano Ferro, che ha scritto un testo per te. Quando scrivo i pezzi, spesso parto da un titolo. Il primo che ho messo giù per questo album è stato Questa nostra storia, ma poi è rimasto indietro, non riuscivo a completarlo, avevo un inciso fortissimo ma non riuscivo a svilupparlo. Vengo a sapere che Tiziano voleva fare qualcosa con me. Allora gli mando il pezzo, dicendogli che, se gli piaceva, poteva aiutarmi a trovarne la soluzione. Una settimana dopo m’ha mandato questo testo pazzesco, la cui sonorità delle parole per di più sta bene con la mia voce, cosa che capita di rado. Non abbiamo lavorato a contatto, ma lui ha questo istinto per scrivere delle canzoni pazzesche. Con Pacifico invece lavoriamo a contatto. Lui è un professionista della parola e ci mettiamo uno di fronte all’altro, mentre ascoltiamo la musica, ciascuno col suo computer. Lui è bravo a farmi uscire le parole giuste, quelle che sto cercando e, quando serve, crea gli snodi. Ha una qualità architettonica nella gestione dei testi, mentre io tendo a perdermi.
E con Isabella Santacroce? Ancora altro metodo di lavoro: al telefono. Sempre che si smetta di cazzeggiare. Lei è splendidamente letteraria, immaginativa. Ma sono io che devo smontarle le idee, prima che perdano spontaneità.
Dentro Inno c’è Ninna nein, un gran pezzo dall’andamento pucciniano. Sono echi degli ascolti familiari che ti tornan su? E la terza ninna nanna che scrivo. Quella prima l’ho fatta con Francesco De Gregori. E un canto che m’ha sempre affascinato, perché viene dalla cultura popolare. Le ascoltavo da bambina e adesso le faccio a mia figlia. Scriverne una, ora che mi serve, è stato naturale. Però la canzone non è nata come ninna nanna. E stata Penelope che, girando per lo studio mentre registravo, aveva qualcosa che non andava e continuava a dire “nein”. Dopo ci ho ripensato, ho cambiato le armonie ed è nata questa ninna nanna con una melodia pazzesca, che anch’io trovo vicina a Puccini, che infatti sento affine per la sua emotività.
Un’altra presenza ricorrente nella costruzione della tua musica è quella di Caterina Bueno, maestra della tradizione toscana. È un legame forte, quello che ti lega a lei? Caterina l’ho incontrata quando all’università di Siena mi chiamarono per il progetto “Cantar Toscano”. Volevo prepararmi e finimmo nella sua casetta a Firenze a sentir nastri di stornelli e di rispetti su un vecchio registratore Geloso. Mi disse: “Guarda che tu sei di Siena e dunque c’hai lottava”. E che è, le dissi io. Lottava rima, mi rispose, come nelle canzoni del Palio, ma pure in Torquato Tasso e Dante. Per noi di lì è una cosa naturale, che assorbì da quando nasci e quando ascolti l’arte dell’improvvisazione e della rima a braccio. Quel che voleva dirmi Caterina era: studia ciò che per tè è naturale. Poi mi dette il primo libretto della Pia de’ Tolomei, da cui ho preso spunto per Pia come la canto io. Del resto io credo proprio che il futuro altro non sia che tra dizione con varianti nuove.
Infine: tu non smetti d’incarnare per gli italiani un’entità connessa coi principi dello slancio disinteressato e della ricerca di libertà. Le tue canzoni diventano tazebao, come per le “notti magiche”, fino a questa Inno, una canzone che s’è rivestita addirittura d’implicazioni elettorali... Solo adesso io sono arrivata ad avere la consapevolezza di chiamare un mio album Inno. Eppure, nata in contrada, quest’idea dell’innologia ce l’ho nel sangue. Ma io non volevo fare la musica di Fontebranda, dove i senesi si ritrovano a cantare vecchie canzoni. L’idea dell’inno mi pareva enfatica e perfino il successo di Notte italiana per me è stato un dolore. Mi son chiesta: ma la mia Musa è tutta lì? Ci ho riflettuto e ho capito che evidentemente era qualcosa che faceva parte di me: tendo all’inno, ecco. Dunque, questo disco è prima “inno” e poi implode nella melodia. Saranno i motivi popolari che mi porto dentro, che premono, vogliono uscire e diventare le mie canzoni. Ma sono contenta che abbiano scelto Inno come musica del PD, perché la vogliono usare per far gruppo, per compattarsi. L’ho trovato coraggioso. Avrebbe perfino potuto cantarla Renzi.