Anna Assumma, l’Espresso 5/4/2013, 5 aprile 2013
In un momento difficile per l’industria italiana, è necessario essere visionari. Le aziende del design si aprono a nuovi mercati, rischiano, innovano
In un momento difficile per l’industria italiana, è necessario essere visionari. Le aziende del design si aprono a nuovi mercati, rischiano, innovano. Grazie a un eccellente software umano– La crisi? Un punto di vista. Non se la passa male per esempio, all’alba di questo catastrofico 2013, il piccolo imprenditore cinese che abbia visionariamente investito in ricerca e sviluppo: potrà accaparrarsi il meglio dell’esercito di ingegneri, tecnici e designer che, a breve, verranno sfornati dalle università del dragone. Migliorano le prospettive anche negli Usa, che nel 2012 hanno cominciato a parlare di ripresa, e in paesi dal Pil in crescita come India, Singapore, Russia e area "Mena", quella che va dal Marocco all’Oman. Ma da noi, dove la scuola è in crisi e il settore del mobile non ha avuto sostegno, la situazione è molto diversa. Roberto Verganti, che insegna gestione dell’innovazione nel corso di studi in design del Politecnico di Milano, lo sa bene: in un momento in cui il mercato interno è imploso «resiste solo chi si apre a quello internazionale». Soprattutto se si tratta di produttori di beni di fascia medio alta. Ma tra le ragioni della crisi delle aziende c’è anche la mancanza di vera innovazione, quella che invece permeava gli anni Sessanta, agli albori del design. «Anche se c’è tuttora molta creatività diffusa, manca la controcultura, la capacità di rompere gli schemi». E se all’estero si va meglio è solo perché, in assenza di grandi brand, c’è più voglia di rischiare. Quali strategie servirebbero, invece? «La contaminazione di mondi: ad esempio tra quello della casa e dell’home entertainment, un settore in continua crescita. C’è chi ci sta lavorando, facendo immaginare case smart da progettisti che con il design non hanno nulla a che vedere». Non ci serve, insomma, l’ennesimo divano. «A meno che non sia veramente diverso». Gianluca Armento, brand director di Cassina, è totalmente d’accordo. La sua ricetta è: intercettare nuovi stili di vita, e cambiare la casa in parallelo. «Con Philippe Starck stiamo sviluppando un sistema chiamato "My World": mobili con wifi e attacchi elettrici incorporati. Il soggiorno del futuro sarà trasformista: un luogo dove rilassarsi ma anche lavorare, dormire, mangiare, far l’amore». Nel cassetto ha un secondo progetto, sviluppato con Carlo Ratti. Si chiama "Our Universe", un’altra riflessione sulla tecnologia applicata all’arredo: ci sarà per esempio lo specchio intelligente, che dialoga con la persona; il tavolo con i piatti galleggianti e spostabili, liberamente ispirato ai vassoi rotanti cinesi; attrezzature per il divano e comodini multifunzione. Strategie anticrisi? «Il mercato italiano ha perso il 40 per cento negli ultimi tre anni: per sopravvivere bisogna distinguersi, la ricerca è centrale». Anche per Gianluigi Ricuperati, preside di Domus Academy, la storica scuola di design che secondo Business Week è tra le migliori al mondo, i mobili sono troppi. Ma sottolinea una diversità, forse la chiave della salvezza da questa crisi brutale: «Il design italiano è fatto di software umano. Ha un’anima, qualcosa di immanente all’oggetto stesso che può raccontare uno spirito alto. È questo che gli studenti vengono a cercare qui». Ovvero nella scuola post universitaria nata a Milano nel 1983, quando il design era già fenomeno culturale ma non c’erano luoghi d’insegnamento. Ci pensarono il critico Pierre Restany insieme a un drappello di grandi come Mendini e Branzi. Qui hanno dato il loro contributo i migliori: Magistretti, Sottsass, Munari, Starck, Urquiola, Irvine. Visto che la scuola funziona - chi esce dalla Domus Academy il lavoro lo trova - nel 2009 venne acquisita da Laureate International Universities, multinazionale americana dell’educazione. La prima mossa fu assumere tutti i precari. Quando, recentemente, si è affrontata la nomina del nuovo preside, Laureate ha suggerito che avesse meno di 35 anni: richiesta che Italo Rota, direttore del dipartimento di design (e autore di capisaldi del progetto come il Museo del Novecento di Milano nonché firma d’esordio del Museo del Design di Milano), definisce una scelta antropologica. Ovviamente il nuovo preside doveva avere anche un curriculum formidabile: praticamente l’identikit di Ricuperati, un non designer («un umanista che crede nella comunicazione tra mondi», si descrive lui), intellettuale interdisciplinare che cerca di immaginare l’insegnamento del futuro a partire da visioni di nuovi scenari. Anche quelli anticrisi. Sulla scrivania ha "2050", di Laurence C. Smith, un saggio che racconta come il cambiamento climatico disegnerà un nuovo assetto geopolitico ed economico. Perché tutto è connesso. «Il sistema degli oggetti è in difficoltà e questo va al di là delle aziende. Che si salveranno solo grazie ai mercati esteri, visto che il nostro è imploso», dice Ricuperati. Forse dobbiamo accettare il fatto che ci sono cicli che esauriscono il loro slancio. «Ma mi piace ricordare che la stagione d’oro del design italiano nacque proprio dalla crisi post bellica. Non è detto che il "nuovo" sia l’ennesimo meraviglioso divano, magari sarà un veicolo che utilizzerà l’energia del terreno per muoversi. Ma perché questo accada c’è bisogno di interdisciplinarietà, ad esempio ingegneria più antropologia più quella capacità di descrizione del reale che è degli scrittori». Infatti sta pensando a un corso di scrittura creativa all’interno della scuola. Che prospettive hanno i designer di domani? «Dovranno inventare nuove professioni. Per questo l’esperienza formativa deve essere fatta secondo metodi come il learning by experience, attraverso la sovraesposizione a diversi stimoli culturali». Cambiano i modelli, e fare una startup è quello che per i ragazzi degli anni Settanta era creare una band. «Se sei bravo riesci a finanziare il tuo progetto», magari facendo fund raising on line. I mestieri nuovi esistono già, ma non hanno ancora una pedagogia. La smart city è una realtà, come il ridisegno dello spazio pubblico. Domus Academy sta lavorando, insieme alla fondazione non profit "Con il Sud", a un progetto per Scampia: il design applicato al sociale, forse addirittura attore nella ricerca di risposte all’implosione etica. «Bisogna passare dalla Wunderkammer degli oggetti alla Wunderkammer delle idee». Italo Rota è entusiasta del nuovo corso della scuola. «Per trovare risposte alla crisi bisogna chiedersi cosa stia accadendo alle persone». Per lui tecnologia ed e-economy sono modalità d’accesso alle merci: il mondo è pieno di oggetti messi in circolo dalla rete. «Oggi chi fa design può intercettare chi produce senza la mediazione del marchio. È nata così una linea low cost disegnata da Giulio Iacchetti», incalza Ricuperati, «dove tutto si gioca su tre entità: designer, macchine, pubblico. E vendite on line». Internoitaliano, il progetto di Iacchetti, è stato presentato lo scorso novembre a Operae, mostra mercato del design autoprodotto di Torino. Una sorta di fabbrica diffusa: laboratori artigiani e piccole aziende manifatturiere realizzano oggetti di alta qualità senza identificarsi in un marchio. Tutti sono co-lavoratori, imprenditori, operai, designer, curatori della vendita sul web. E le aziende tradizionali in crisi? «Spesso la responsabilità è loro, visto che nel mondo il numero delle persone con alto potere d’acquisto è in aumento». Ci sono anche aziende storiche in controtendenza, con fatturati da capogiro nei giorni della recessione più cupa (bisognerebbe studiarne il modello). Altre si salvano percorrendo nuove strade, per esempio contaminando mondi: «Tra le più belle lampade degli ultimi anni ci sono quelle disegnate da uno stilista, Issey Myiake, per Artemide». La centralità di Milano capitale del design non è in discussione: anzi, secondo Rota, è sempre una delle città più attrattive al mondo. «Hemingway diceva che la bellezza della prosa è grazia sotto pressione», interviene Ricuperati: «E questo momento storico è appunto così: grazia sotto pressione». Pressione che permea, insieme a una buona dose di pragmatismo, le stanze di Federlegno Arredo, l’associazione che raggruppa la filiera del legno e del sughero: semilavorati, mobili, serramenti, fino alle cassette per la frutta. Naturalmente include anche le aziende che producono arredamento, dalla fabbrichetta di famiglia al colosso del design. E gli allestitori di fiere: l’associazione è la chioccia sotto la cui ala si trova il Salone del Mobile. Chi ci lavora ritiene che la fiera sia strumento indispensabile per fare crescere il settore, infatti hanno appena investito 6,5 milioni di euro e congelato da tre anni il prezzo al metro quadro degli stand. «Il calo dei consumi interni è drammatico», dice Giovanni De Ponti, direttore generale: «Il 39 per cento in cinque anni, 51.651 addetti in meno. Ma non è vero che le nostre imprese non sono competitive. Le mette in crisi il blocco dell’accesso al credito: le banche non erogano più mutui, mentre il mercato dei cellulari, come quello dell’entertainment, non è affatto in sofferenza, perché continuano a sostenere il credito al consumo». Sul tavolo ha volumetti, made in Federlegno, con titoli come "L’innovazione va fatta quando non serve" o "Fare impresa durante la tempesta". Raccontano la necessità di investire, il bisogno di ricominciare. «Storie di intraprendenza». La ricetta? Servono politiche industriali. «L’ultimo governo ha portato dal 36 al 50 per cento la cifra detraibile dalle tasse per ristrutturazioni fino a 96 mila euro, significa 4.800 euro di detrazioni all’anno per dieci anni». Non è poco. E infatti i dati dell’Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance)hanno rilevato una crescita del 9 per cento nel settore. «Perché è un’idea geniale, funziona. Abbiamo suggerito di includere tra i beni detraibili anche l’arredamento. Purtroppo la proposta non è passata». L’amarezza resta: il loro centro studi ha valutato che l’iniziativa porterebbe a una ripresa dei consumi di 1,2 miliardi di euro, una vera boccata d’ossigeno. Tutti dicono che il nodo è l’incapacità delle aziende di affrontare il mercato estero. «Infatti il mercato interno copre il 65 per cento della produzione. Ci vuole tempo: portare gli imprenditori in giro per il mondo, trovare i buyer. Alcuni già mandano a studiare fuori i figli. Ma non tutti ce la faranno: 4.189 aziende hanno chiuso, prevalentemente in Lombardia, Triveneto, Marche. Però dalla Puglia arriva una proposta interessante: un programma per attirare chi voglia avviare un’attività a Bari, un investimento di miliardi di euro per costruire, attraverso incubatori d’impresa, un distretto produttivo». L’affitto mensile dello spazio, già dotato di servizi e infrastrutture, è di 10 euro al metro quadro. Raccontano storie incredibili, qui. Come quella dei distributori cinesi di made in Italy: chiedono aiuto a Federlegno perché non sanno come convincere i consumatori del loro Paese che i prodotti proposti sono realmente italiani, non copie. «La qualità italiana non ha eguali al mondo». Per questo Federlegno sta sostenendo presso il Parlamento Europeo la proposta di fissare regole per la tracciabilità dei prodotti, il cosiddetto "Made in". Aiuterebbe anche nell’esportazione. Per ora lo sbocco in Cina riguarda piccoli numeri, solo 150 milioni di euro. «Dobbiamo imparare a muoverci. Nella fascia alta il mercato è enorme, e non c’è solo la Cina, negli Usa ci sono grosse potenzialità». Per il 2013 hanno in programma 15 missioni all’estero. «La crisi può diventare un’occasione». Antonio Catalani insegna alla Bocconi design management. Ha un passato in una delle aziende-mito del design degli albori, creata da uno degli imprenditori-mito della storia del settore. Gli diceva: «Dedica tempo allo sguardo. Cerca la bellezza, e portala con te». Una volta gli uomini d’azienda erano così. Lui il primo amore non l’ha scordato, e non solo per sete di bellezza: da economista, sa che l’arredamento è una delle voci che contribuisce all’attivo nella bilancia dei pagamenti: «Più di 7 miliardi soltanto nel 2012». Eppure ci si investe poco. «Per motivi lobbistici. Si investe in ambiti che contano di più in termini di potere, come la moda, che esporta sì molto ma importa ancora di più. O l’industria dell’automobile. Per l’arredamento niente». Anche per lui la risposta è oltreconfine. Intercettare altri mercati. «Le nostre aziende sono impreparate sul piano commerciale, forse la terza generazione d’impresa sta perdendo anche il saper fare degli esordi. Bisogna reimparare a fare i prototipi, recuperare l’artigianalità che negli anni Sessanta ha fatto il boom, affrontare la complessità logistica dell’esportazione. E poi c’è il problema del mito del design». Cioè? «Vanno ripensate celebrazione e quantità delle merci. Al Salone del mobile ci sono circa 2.500 espositori. Se ognuno presenta una media di 4 oggetti, significa che ci saranno 10 mila pezzi nuovi. Quanti verranno davvero messi sul mercato? Chi paga realmente i costi di questo sistema?». Ma, durante la fiera, Milano vive un momento di euforia che non si vede per il resto dell’anno. «Però non è detto che dia ritorno. È una fiera della vanità». Per Catalani il cambiamento deve essere culturale, cosa difficile. «Se Driade, azienda colta, sensibile, intelligente, chiude lo show room gioiello di via Manzoni, vuol dire che siamo oltre la crisi. I modelli organizzativi non possono più essere quelli degli anni Ottanta. Ma il sistema è vischioso, difficile che gli imprenditori riescano a sottrarsi, che non vadano al Salone e si giochino il nome dei soliti designer. La poltrona "Joe", di De Pas, D’Urbino, Lomazzi era pop art. Nei mobili di Le Corbusier si leggeva una visione. Ora invece prevale il mercato. Potremmo vivere anni senza acquistare nuovi mobili e abiti, limitandoci a cibo e libri». Una diagnosi radicale. «Soltanto così si può immaginare la cura».