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 2013  aprile 05 Venerdì calendario

Tutte le piste portano a Benetton– A mettere i bastoni tra le ruote dei Benetton potrebbero essere i coltivatori di meloni di Maccarese e gli allevatori di mucche di Fiumicino

Tutte le piste portano a Benetton– A mettere i bastoni tra le ruote dei Benetton potrebbero essere i coltivatori di meloni di Maccarese e gli allevatori di mucche di Fiumicino. Oppure l’Antitrust. I primi minacciano di muovere i trattori in difesa delle terre che l’aeroporto vuole rubare loro per allargarsi. L’authority guidata da Giovanni Pitruzzella dovrà decidere se l’unione tra le due concessioni detenute dai Benetton, quella sulle autostrade e quella sull’aeroporto di Roma, può produrre vantaggi o viceversa diventare un mostro di conflitti d’interesse. In attesa che gli uni e gli altri si muovano, la fusione tra Atlantia (autostrade) e Gemina (che possiede Aeroporti di Roma) si avvia a incassare il "sì" delle rispettive assemblee (tra fine aprile e metà maggio) essendo una fusione senza scambio di denaro ma solo di titoli: uno di Atlantia per nove di Gemina. E presentandosi come un’operazione da record. "La più grande fusione degli ultimi tempi", " il piano di investimenti più gigantesco in Europa, ben 12 miliardi", sono gli slogan che accompagnano le nozze. E da record è il parterre interessato all’affare. Innazitutto la famiglia di Treviso, che nel 2008 per controllare le due attività che aveva in portafoglio aveva creato la holding Sintonia con il proposito di finanziare lo sviluppo dei due business all’estero (e mitigare il proprio rischio Italia). Ma anche i partner importanti che si era tirata dentro, il Fondo sovrano di Singapore, Goldman Sachs e Mediobanca, che avevano sborsato 2 miliardi di biglietto d’ingresso. Tutti ansiosi di veder fruttare l’investimento rimasto finora al palo. Adesso è venuto il momento: il governo ha concesso ad Adr di aumentare le tariffe sul traffico aereo (sbloccate a fine 2012) e di remunerare il capitale che investirà dell’8,5 per cento netto. Questo mette magicamente in ordine tutte le pedine del domino disegnato dallo stratega della famiglia Benetton, Gianni Mion. Mentre Alessandro Benetton si dedica a Edizione, la holding in cui prosegue il ramo storico dell’abbigliamento, Sintonia ha la missione di allevare il nuovo campione delle concessioni infrastrutturali, autostrade e aeroporti. E di lanciarlo a contendere concessioni in giro per il mondo, dal Brasile all’India, secondo il modello della francese Vinci (vedi box a pagina 120). Un traguardo a cui i Benetton puntavano già nel 2007, quando tentarono le nozze delle autostrade con la spagnola Abertis. Ma il governo impedì l’operazione. Oggi ci stanno per arrivare, anche se per un altro percorso. Il passo successivo, e forse conclusivo, sarà ancora più in là, quando scadrà nel 2015 il patto che vincola i soci di Sintonia. Allora, sarà più facile per tutti, con un solo asset a disposizione (la nuova Atlantia), azzerare anche la scatola di Sintonia e assegnare direttamente a ognuno dei soci una quota del nuovo campione delle infrastrutture. Che nasce da subito con un fatturato di 4,5 miliardi e un Mol (margine operativo lordo) pari a 2,7 miliardi. Ma che soprattutto può contare su incassi da concessione (che dipendono dalla capacità di trattare con il governo, ma sono incassi sicuri) pari a 3,9 miliardi, cioè l’86 per cento del giro d’affari totale. A titolo di paragone, la Vinci, che ha un fatturato di 38 miliardi e una capitalizzazione di 20 (il doppio di Atlantia post-fusione), ha 5 miliardi di incassi da concessioni, ma essi rappresentano solo il 13 per cento della sua attività. Abertis ha più o meno gli stessi incassi da concessioni di Atlantia (3,5), ma con il 50 per cento di autostrade in più: 7.500 chilometri contro 5 mila. Insomma, a occhio, le concessioni dei Benetton sono una miniera d’oro piuttosto unica. Come si conferma con gli ultimi aumenti tariffari: il passaggio da 16 a 27 euro di incasso per passeggero serve ad adeguare il livello di Fiumicino a quello di Milano e ad avvicinarlo ai prezzi degli aeroporti europei, ma è pur sempre un rincaro del 70 per cento. Considerando gli attuali 41 milioni di passeggeri (il traffico arriva oltre la capacità di 37 milioni dell’aeroporto, e si vede) sono 450 milioni di euro in più da subito. Ma perché su tutto l’affare potrebbe mettere becco l’Antitrust? È vero, come sostengono i difensori di parte, che si tratta di due business diversi. Ma l’attuale Atlantia, guidata dall’amministratore delegato Giovanni Castellucci e dal presidente Fabio Cerchiai (in scadenza, ma rimarranno al vertice della nuova società post fusione), controlla il 44 per cento della rete autostradale nazionale; Adr (presidente Fabrizio Palenzona e ad Lorenzo Lo Presti) il 30 per cento del mercato nazionale e il più importante scalo, Roma, con una concessione stimata oggi un miliardo e mezzo di valore. L’integrazione tra un grande monopolio e un peso massimo può danneggiare il consumatore? Passi che ci siano rapporti commerciali con azionisti importanti: quello assicurativo con le Generali (che ha il 3 per cento di Gemina), quello con Changi Airport (che gestisce l’aeroporto di Singapore, sempre in Gemina) per il progetto della nuova aerostazione, tutti dichiarati e trasparenti, ma certo la sinergia che si realizza con Autogrill, sempre dei Benetton, che ha il 25 per cento della ristorazione di Fiumicino, e il Telepass di Atlantia che incassa i parcheggi dell’aeroporto, fanno pensare. Sussidi incrociati? Lo diranno gli uomini di Pitruzzella. I quali dovranno anche considerare quali effetti avrà la fusione: il piano è di utilizzare i bracci operativi delle autostrade (capacità ingegneristiche, organizzative, gestionali, ma anche società) per realizzare il piano di investimenti da 12 miliardi sbandierato da Fiumicino. I primi 3,1 miliardi verranno spesi nei prossimi dieci anni e dovranno portare la capacità dagli attuali 37 a 55 milioni di passeggeri. Un ritmo di spesa che Adr, abituata a centellinare 50/60 milioni di investimenti l’anno, non è in grado di gestire da sola. Qui entrano in gioco la Pavimental, la società di Atlantia leader nelle pavimentazioni stradali e piste per aerei, e la Spei, la società di ingegneria. Entrambe, di fatto, lavoreranno con i fondi resi disponibili dal flusso tariffario di Adr. Cioè, in ultima analisi, di tutti noi viaggiatori. Non solo. Come la vandea di Fiumicino ha messo in evidenza, il Master plan dell’aeroporto prevede, in una seconda fase, anche un raddoppio della sua capacità: arrivare a 100 milioni di passeggeri con la costruzione di una nuova aerostazione e della quarta pista. Dove? I terreni ci sono e sono a Nord dell’attuale aeroporto. Ma sono di proprietà della Maccarese, azienda agricola che è appartenuta all’Iri fino alla sua privatizzazione. A comprare, nel 1998, sono stati i Benetton, pagandola 100 miliardi di lire. Dei 3.600 ettari dell’azienda, circa 900 sono destinati alla quarta pista, quella che dovrebbe lanciare Roma verso i 100 milioni di passeggeri (oggi Londra Heathrow ne ha 80 con due piste). Per essere asfaltati dovranno essere espropriati. E con l’esproprio i Benetton potrebbero incassare sui 200 milioni di euro, con ciò giustificando in pieno l’esborso fatto all’Iri quindici anni fa. Anche quel prezzo, in conclusione, sarà pagato da chi viaggia. Non c’è da stupirsi che le compagnie aeree siano in subbuglio. Ma c’è un ultimo tassello della vicenda che resta ancora fuori posto: l’Alitalia. Nella cui compagine azionaria siedono anche i Benetton. Sebbene oggi la speranza di crescita dell’aeroporto romano sia tutta riposta verso Est, l’unica direttrice di traffico in grado di presentare un segno più mentre le altre sono in declino, Alitalia e i suoi conti sono piombo nelle ali. «La metà dello sviluppo di Fiumicino sarà finanziata da ricavi tariffari originati da clienti esteri», proclama il Piano della Changi: vero, ma l’altra metà è traffico italiano, ed è in panne. Oggi l’Alitalia è debitrice di Adr per svariati milioni e non sembra essere in grado di onorarli, ma è comunque il principale cliente. Proprio per Alitalia si era pensata la seconda aerostazione, quella a Nord, ma con le incertezze sul futuro della compagnia i dubbi crescono, insieme al fatto che dovranno essere spesi 5,7 miliardi a carico del pubblico per strade, ferrovie e collegamenti vari. Ha senso farli per una compagnia che non si sa se ci sarà?