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 2013  aprile 05 Venerdì calendario

LA FIGLIA DEL BOIA

«Per una distrazione inspiegabile », si dice. Succede, è appena successo di nuovo con la decina di “saggi” fra i quali si sono dimenticate le donne. Era successo in grande con il premio Nobel per la pace all’Europa: bella idea, ma si erano dimenticati la ex Jugoslavia. Oppure si erano dimenticati che era Europa.
C’è un tribunale all’Aja, procede come può, in una specie di proroga malvolentieri sovvenzionata, per i criminali più grossi, per gli altri provvedono come possono le filiali locali, come a Sarajevo. Il criminale più grosso (non dirò il peggiore: quella è una gara da cui guardarsi) è Ratko Mladic. Quando il generale Mladic sbrigò la faccenda di Srebrenica, la sua figlia amatissima, Ana, era morta da più di un anno. Studiava medicina a Belgrado, aveva 23 anni, si era ammazzata con la pistola paterna. Si disse che Ana avesse amato un musulmano di Bosnia. Clara Usón (Barcellona 1961) ne ha fatto la protagonista di un emozionante romanzo che è anche la miglior storia della ex Jugoslavia che io abbia letto: La figlia esce ora da noi, edita da Sellerio.
Un romanzo come questo deve tenersi all’altezza, chiamiamola così, dei documenti autentici. «Domanda: Cosa disse il grande eroe serbo, generale Mladic, quando fu messo di fronte all’accusa che i suoi uomini stupravano le donne musulmane? Risposta: I soldati serbi non hanno gusti così scadenti». Ha corso rischi forti, l’autrice. Si sta dalla parte delle vittime, ma si cede facilmente alla sensazione che le vittime siano facili da capire, e interessanti siano invece i malvagi. È come con le famiglie felici, che si assomigliano, e le infelici sono interessanti. Usón muove da lì, due filmati successivi su Youtube: una figlia bella, una famiglia felice attorno a un padre ammirato e amato, poi il funerale di quella figlia e i genitori e il fratello con gli occhi bassi e l’aria affranta. Ana poteva diventare il pretesto per esplorare gli abissi (abissi, vale solo per i cattivi) dell’animo paterno.
Usón vuole bene ad Ana, e affronta la sfida di riempire i vuoti della sua vita con una delicatezza e una premura che sventano l’indiscrezione. E quanto al “mostro”, lo guarda e lo fa vedere con gli occhi di Ana. Mladic non avrebbe potuto trovare avvocato difensore migliore di quella figlia che lo venerava e in cui voleva specchiarsi: e quando le prove accumulate a suo carico eccedono anche la dedizione cieca di un simile difensore, la condanna diventa inesorabile e rassegnata. La figlia prediletta non è un tribunale, e non saprebbe condannare se non rinunciando a vivere. Aveva un fratello minore, Ana, che si chiama Darko e proclama oggi l’innocenza paterna e protesta contro l’invadenza nella sua famiglia: ma anche la sua dedizione, che non vuole smettere d’esser cieca, non troverebbe argomento più efficace del racconto attraverso cui persone e popoli rinnegano l’umanità e riprecipitano dentro il gusto del sangue.
Guerra etnica, la chiamavano, come se l’etnia diversa giustificasse il macello: e là per giunta l’etnia era una sola, per musulmani di Bosnia e ortodossi di Serbia e cattolici di Croazia: «Dunque a determinare
l’appartenenza era, come sempre, la religione professata dalle generazioni precedenti, il cippo, la lapide o la croce eretti sulle tombe che proteggevano le vecchie ossa con i capelli appiccicati, la polvere triste degli antenati». Un’iscrizione su una tomba bogomila vecchia di sette secoli recita: «Non girate questa lapide, perché al chiaro di luna le nostre ossa discutono su chi avesse ragione
e chi no. E la morte ci ha resi ancora più estranei l’uno all’altro».
È bellissimo, questo romanzo, e lo lascio alla lettura. Annoto che il nume di Tolstoj lo attraversa, e in un caso diventa la geniale chiave di volta della pena di Ana. È il racconto breve intitolato Dopo il ballo. Un uomo anziano racconta un episodio di gioventù che ha mutato la sua vita. Nel palazzo del maresciallo di nobiltà si dà un ballo di carnevale. Il narratore è innamorato della bellissima Varen’ka. La bella gli riserva tutti i balli. Dopo la cena, la padrona di casa si rivolge a Varen’ka perché persuada il colonnello suo padre a danzare con lei. Il padre è un comandante militare vecchio stile. «Cercava di schermirsi, dicendo di aver disimparato a ballare; tuttavia, sorridendo… quando il motivo cominciò, batté energicamente un piede a terra; gettò avanti l’altra gamba e la sua alta, corpulenta figura... La figura leggiadra di Vàren’ka gli fluttuava attorno... Io li guardavo non solo con ammirazione, ma con una sorta di intenerimento entusiastico…».
Il narratore si commuove alla vista delle scarpe risuolate e fuori moda di quel padre, avaro con sé per far brillare nel mondo la sua creatura. Il colonnello bacia teneramente la figlia e presto si accomiata, scusandosi coi suoi doveri. Rientrato a casa, il giovane è troppo emozionato per prender sonno: torna fuori a camminare, alla volta del palazzo in cui abita lei. Mano a mano che si avvicina, percepisce sempre più chiaramente il sinistro rullo di un tamburino e il suono acuto di un piffero che precedono un gruppo di soldati, indossano uniformi nere e si dirigono verso un terreno abbandonato. Là si dividono in due file, formando uno stretto passaggio. «Cosa stanno facendo?», chiede a un fabbro che osserva la scena al suo fianco. «Puniscono un tartaro che ha cercato di disertare», risponde il fabbro disgustato. «Guardai anch’io, e scorsi in mezzo alle file qualcosa di orrendo che stava venendo verso di me. Quella cosa era un uomo nudo fino alla cintola, legato a un fucile retto da due soldati. Accanto camminava un militare alto, in cappotto e berretto, la cui fisionomia mi parve familiare. Contorcendosi in tutto il corpo, con i piedi nella neve del disgelo, l’uomo punito, coi colpi che gli piovevano addosso dalle due parti, avanzava verso di me, ora rovesciandosi all’indietro — e allora i sottufficiali che reggevano il fucile, gli davano uno strattone in avanti — ora sbandando in avanti, e allora gli davano una spinta all’indietro. E accanto camminava quel-l’ufficiale alto, rigido, con l’andatura sussultante. Era il padre di lei, con il suo viso roseo e i baffi e le fedine...».
Il disertore, con la schiena scorticata da cui sgorga il sangue, implora pietà, ma nessuno si commuove; anzi, colpiscono più forte. Tutt’a un tratto il colonnello si ferma e si avvicina a uno dei soldati. «Adesso ti insegno io come si fa a picchiare », gli dice arrabbiato. Colpisce con la mano inguantata la faccia del soldato e si allontana, fosco, a grandi falcate, mentre grida: «Fate portare nuove sferze!» Incrociando lo sguardo del giovane, finge di non riconoscerlo. In quel momento lui prende la decisione che cambierà la sua vita: non entrerà nell’esercito, come aveva programmato. «Quanto a Varen’ka… Si disinnamorò di lei».
Quando Ana Mladic lesse questo racconto, per la prima volta il suo Tolstoj la deluse.