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 2013  aprile 05 Venerdì calendario

LE CITTÀ DEL LIBRO

In principio fu il Salone di Torino, inaugurato dal Nobel Josif Brodskij nel maggio 1998 tra qualche scetticismo e poi cresciuto così impetuosamente da superare per distacco il modello parigino cui avevano guardato i fondatori Accornero e Pezzana. Dieci anni dopo è spuntato il Festival Letteratura di Mantova, che guardava alla già mitica esperienza inglese di Hay-on-Wye. Ancora qualche anno, e sarebbe arrivata la grandeur romana del Festival di Massenzio, insieme a decine di altre iniziative, da Campi Salentina a Gavoi, su su fino a Pordenone.

Nasceva così un altro paradosso italiano: a indici di lettura tra i più bassi d’Europa corrisponde una fioritura di festival che non ha eguali. Per lo più d’alto profilo, persino dedicati a temi considerati difficili: l’economia a Trento, la scienza a Genova e a Bergamo, la filosofia a Modena-Carpi-Sassuolo, le scienze cognitive a Sarzana, il libro ebraico a Ferrara, Spiritualità e Democrazia a Torino… Già dato per disperso, il popolo dei lettori si è materializzato ovunque in numeri da concerti pop, pronto a metabolizzare perfino lezioni magistrali di forte peso specifico. Ignorata dai governi centrali, la cultura si è presa le sue rivincite a livello locale. Saloni e festival hanno avuto il merito di rendere visibile una domanda culturale di qualità e si sono rivelati un buon volano economico: altro che «con la cultura non si mangia». Poi la glaciazione delle spending review, in obbedienza al tacito pregiudizio per cui la cultura è uno spreco da contenere. Come se ogni discorso sulla ripresa non dovesse ripartire da quel propellente primo, l’unico, tra l’altro, di cui disponiamo in quantità.

Se lo tsunami recessivo investe anche i festival, urge fare sistema, mettersi in rete e studiare soluzioni tutti insieme. Questa l’idea di Piero Fassino, prontamente raccolta da Rolando Picchioni per il Salone del libro e Gian Arturo Ferrari, presidente del Centro per il libro. Così oggi e domani arrivano a Torino più di sessanta «città del libro» per progettare un percorso comune di ottimizzazione delle magre risorse e di razionalizzazione delle iniziative.

Se l’obiettivo primario è quello di farsi riconoscere dal Ministero la tutela normativa che la legge oggi riserva unicamente ai beni materiali rigidamente intesi, e che invece l’Unesco ha ampliato ai patrimoni immateriali, non meno importante sarebbe l’istituzione di una governance della cultura: non un direttorio o il solito pletorico organo commissariale che faccia piovere diktat dall’alto, ma un tavolo collegiale e operativo che favorisca coordinamento e condivisione, che preservi e valorizzi le diversità come risorse, e magari allarghi il discorso alle biblioteche, che stanno diventando l’ultima frontiera della socialità. Correre da soli non si può più, gli eventi non possono bastare a se stessi. Economia, territorio, innovazione e cultura devono imparare a dialogare presto e bene. Le esperienze delle «città del libro» sono un tesoretto da non sprecare.