Federica Bianchi, l’Espresso 5/4/2013, 5 aprile 2013
Nuovo Business Dragone. Cibi sani, vestiti, cultura. La classe media sempre più ampia (450 milioni di persone) vuole spendere in prodotti di qualità
Nuovo Business Dragone. Cibi sani, vestiti, cultura. La classe media sempre più ampia (450 milioni di persone) vuole spendere in prodotti di qualità. È un’occasione da non perdere. Anche per noi italiani– Quando il maestro Alberto Veronesi ha incontrato per la prima volta l’orchestra del teatro di Tianjing dove ha portato "Tosca" di Puccini, la prima opera italiana a essere suonata in città da 35 anni, non si aspettava di dover lavorare con un’orchestra così arrugginita. «C’è tanto lavoro da fare», ha sospirato il direttore, illustrando il suo progetto della creazione di un’accademia capace di traghettare i giovani musicisti cinesi nella terra del Bel Canto: «Noi italiani abbiamo molto da insegnare». Speriamo che almeno con la lirica l’Italia riesca a conquistare il cuore e il portafogli di questa Cina 2.0 nata all’insegna del benessere e pronta a investire nelle esigenze dello spirito. Perché se guardiamo all’avventura del Made in Italy in Cina, da quando il Paese nel 2001 è entrato nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) a oggi, i risultati non sono certamente confortanti. «Lusso a parte, i beni di consumo italiani non sono mai decollati in Cina», spiega Romeo Orlandi, vicepresidente dell’Osservatorio Asia, adesso che non solo le importazioni ma perfino le nostre esportazioni verso la Cina sono drammaticamente in calo: «L’idea di vendere i maglioni ai cinesi fa ridere», aggiunge poi, sottolineando come, fatta qualche eccezione nella meccanica di precisione, il nostro sistema produttivo sia perfettamente sovrapponibile a quello cinese. In altre parole, sono nostri concorrenti diretti, più o meno come nel Dopoguerra noi lo siamo stati per la Francia. Ora sono pochi a negare che l’Italia sia stato il Paese ad avere maggiormente sofferto dall’entrata della Cina nell’Omc. Due le ragioni principali. La Cina non ha sempre rispettato gli impegni presi e l’Italia ha un sistema economico incapace di competere contro un gigante manifatturiero in un mondo globalizzato. Le mancano le dimensioni aziendali e, dopo anni di dismissioni, anche le competenze tecnologiche. «Negli Settanta e Ottanta c’era chi diceva che piccolo è bello», si sfoga Orlando: «Hanno distrutto le poche grandi aziende che avevamo ma le nostre piccole e medie non hanno le risorse necessarie per una sfida simile». A gravare ulteriormente si aggiunge l’annoso problema del fare squadra: la riluttanza della nostra classe imprenditoriale non solo a crescere assorbendo altre aziende (come hanno saputo fare i francesi con gruppi alla Lvmh e Ppr) o acquisendo management esterno, ma anche solo a presentarsi compatti in Paesi nuovi. «Adesso il mercato cinese non è solo il più grande del mondo. È anche il più competitivo. Sicuramente molto più complesso di quello che pensano gli italiani». A spiegarlo è Gao Zhen, manager di Capital Mandarin, dal suo ufficio con vista sui grattacieli di vetro della capitale Pechino: «Senza un partner cinese che conosca le diverse nicchie in cui è segmentata la Cina, le località migliori per riuscire a vendere un certo prodotto e che si occupi della gestione del personale e della logistica è difficile per un imprenditore italiano sfondare qui». Un’idea delle dimensioni raggiunte dai pochi italiani che hanno successo in Cina la offre Ermenegildo Zegna. Da vent’anni nel Paese, per difendere la sua posizione (in calo) di sesto maggiore marchio del lusso e quinto più amato dai cinesi, ha speso quasi 30 milioni di euro tre anni fa solo per aprire un mega negozio a Shanghai mentre ancora non ha una vetrina equivalente a Pechino. Quello che alla vigilia degli anni Duemila sembrava il grande mercato del futuro si è oggi trasformato nel più grande incubo italiano. «Con l’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio pensavamo che avremmo avuto a disposizione il maggiore mercato del mondo. Invece sono stati loro ad invaderci con i loro prodotti mettendo fuori gioco le nostre imprese», sottolinea Orlandi. Secondo i dati del fondo di investimento italo-cinese Mandarin Capital il 70 per cento dei redditi generati dal settore abbigliamento - uno dei quattro big del made in Italy - è prodotto in Cina da aziende cinesi. Il rimanente 30 è spartito tra migliaia di aziende straniere. Il che vuol dire che avere successo da queste parti è difficile davvero, soprattutto per chi non vi ha voluto o saputo investire una quindicina di anni fa, quando gli spazi espositivi nelle grandi città cinesi erano ancora disponibili a prezzi accessibili e l’Italia era nell’immaginario collettivo il paese dorato di Sofia Loren, Luciano Pavarotti e Valentino anziché quello disperato del bunga bunga e della crisi dell’euro. Altro che "Dolce Vita": il nostro lifestyle contemporaneo è visto dai cinesi con commiserazione. Il rompicapo per le piccole e medie imprese italiane (Pmi) è che proprio in questo momento difficile, se vogliono sopravvivere, devono necessariamente fare i conti con la Cina. Se non altro, almeno per vendere l’attività. L’Europa, con le sue crisi multiple, non basta più. Per non parlare del mercato interno di un’Italia incapace economicamente ma anche politicamente di reagire al tremendo impatto della crescita asiatica. «Quando la Cina era un’opportunità noi l’abbiamo ignorata. Ora che è anche una minaccia insistiamo sull’opportunità», spiega Davide Giglio, il numero due dell’ambasciata italiana a Pechino: «Per reagire dobbiamo capire che parte dei problemi dell’Italia di oggi nasce proprio con la Cina». Nel frattempo però la Cina è cambiata un’altra volta. O meglio la Cina di oggi non è già più quella di cinque anni fa. Le megalopoli e alcune città della fascia costiera sono entrate in una nuova fase di crescita che si può definire appunto 2.0 e che forse per noi italiani potrebbe essere più facilmente sfruttabile. Raggiunto un moderato livello di benessere economico e attanagliati dalla violenza di un inquinamento che non solo oscura i cieli e soffoca i polmoni ma avvelena anche gli alimenti e le bevande di uso quotidiano, la celebrata classe media (circa 450 milioni di persone con un reddito spendibile minimo di 10 mila euro l’anno) si rifiuta di portare in tavola prodotti cinesi, cerca nei suoi vestiti fibre provenienti da Paesi "puliti" ed è molto più attenta al rispetto degli standard di salute e sicurezza. Un cambiamento di atteggiamento epocale. «Se il governo non riesce a garantire uno stile di vita soddisfacente i cinesi che possono permetterselo se lo vanno a cercare da soli», sottolinea Gao. Pagare un 30 o anche un 40 per cento in più per il carrello della spesa non è un problema. Non a caso, preso atto della tendenza, la grande distribuzione cinese, da Ole a Cofco, ha iniziato a riservare una parte dei suoi scaffali per l’angolo dei prodotti importati. Ma anche la nuova leadership, che in queste settimane sta insediandosi a Zhongnanhai (il quartier generale della politica cinese) per rimanerci dieci anni, ha capito che il benessere richiesto dai cittadini va oltre il conto in banca. Tra i punti principali del prossimo piano quinquennale l’ambiente, con la lotta all’inquinamento, è il più evidente mentre le potenti famiglie a capo delle grandi aziende di Stato sono già pronte a dar guerra alle richiesta di una parte della classe politica di applicare gli standard ambientali e di sicurezza alle loro infrastrutture datate. «I grandi settori di sviluppo del futuro sono quelli che hanno a che fare con la salute e l’ambiente», sentenzia Alberto Forchielli di Mandarin Capital. I prodotti coinvolti sono tanti, dalle tende ignifughe alle valvole per oleodotti passando per il packaging alimentare. In molti gli italiani sono fortissimi. «Noi italiani siamo condannati a fare prodotti di qualità in piccolo», sostiene Antonino La Spina dell’Istituto del commercio estero di Pechino: «Solo quello sappiamo fare. Adesso che i cinesi apprezzano la qualità per noi si schiudono nuove chance». A crederci è Silvio Albini, presidente di Milano Unica, la fiera che racchiude i principali distretti del tessile italiano, e amministratore delegato del Cotonificio Albini: «Come saremmo potuti sbarcare prima quando i cinesi non avevano idea delle varietà di cotone e non avrebbero mai pagato un prezzo più alto per la nostra qualità?». In aiuto a questa tarda ondata di imprenditori italiani che guardano a Oriente potrebbe venire Internet. L’assenza di grandi reti distributive come quelle di cui da decenni godono i francesi (Carrefour e Decathlon tra tutte) e i tedeschi è un altro dei motivi che non ha facilitato lo sbarco del made in Italy da queste parti. Ma adesso con i suoi 500 milioni di utenti on line la Cina ha tutti i requisiti per diventare in sette anni il tempio dell’e-commerce. Secondo un’indagine della società di consulenza McKinsey, le vendite sul Web raggiungeranno un livello compreso tra i 330 e i 500 miliardi di euro: l’equivalente dell’attuale valore complessivo dei mercati di Usa, Giappone, Inghilterra, Germania e Francia. Un canale quello di Internet da non prendere sottogamba. Dopo tre settimane in Cina a non farlo è per primo il maestro Alberto Veronesi: «All’inizio, quando mi chiedevano di autografare un Cd di opera mi chiedevo dove lo avessero trovato. Poi ho capito: on line».