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 2013  aprile 05 Venerdì calendario

IL POTERE DEL LETTINO

C’è stato un tempo in cui la psicoanalisi come disciplina e ancora di più come pratica della cura era vista come la peste. Andare dallo psicoanalista era considerata una roba per matti. Non so se questo tempo sia davvero finito, come alcuni sostengono, ma dobbiamo registrare che il dialogo analitico è diventato oggetto di interesse tale (e, dunque, mi chiedo, di addomesticamento?) da produrre un serial televisivo di grande successo. Sbarca, infatti, in questi giorni sugli schermi televisivi di Sky Cinema la versione italiana della fortunata omonima serie americana di In treatment con Sergio Castellitto nei panni dello psicoterapeuta e con la regia di Saverio Costanzo. L’obiettivo è ambizioso: mettere una cinepresa nella stanza dell’analisi, nel luogo più intimo, più privato, più inaccessibile; dove le vite umane si raccontano, si aprono, si rivelano nella loro intimità più scabrosa e bizzarra, dove parlano del loro dolore più sordo, dove si mettono a nudo.
Sono vite diverse l’una dall’altra, vite particolari.
Non la vita in generale, non le sue strutture e le sue proprietà ontologiche universali, sulla quale può riflettere la filosofia, ma la vita nella sua incomparabilità più particolare, nella sua stramba originalità, la vita nel suo nome proprio, nella sua anomalia, nella sua stortura, la vita di Alice, di Sara, di Andrea, di Pietro. Questo taglio — che riflette pienamente il lavoro che avviene nella stanza dell’analisi — è quello che ha incollato gli spettatori di tutto il mondo alla prima e fortunata
serie americana.
L’inquadratura fissa, stabile, senza variazioni del setting, della stanza dell’analisi e dei movimenti lenti e ripetitivi del terapeuta, ritrae con una certa efficacia la dimensione silenziosa e operaia del nostro lavoro: aprire e chiudere la porta, accogliere e congedare il paziente, sedersi e ascoltare, fissare l’appuntamento per la seduta successiva. Mantenere il setting il più stabile possibile di fronte al maremoto della vita interiore; preservare la sua cornice come un contenitore sicuro di fronte alle instabilità inquiete di chi si muove al suo interno. Il dettaglio del soprammobile dell’onda blu in perenne movimento contenuta in un scatola di plastica può rendere in modo plastico questa strana mistura che caratterizza il lavoro dell’analisi. Il mondo fuori è in movimento, la seduta delle 18 comporta sempre un certo ritardo a causa del traffico romano, le condizioni atmosferiche cambiano, al sole tiepido di primavera subentra la pioggia fredda di una sera d’autunno, cadono e si ricompongono i governi, ma la stanza dell’analisi deve preservare una costanza che non si lascia intaccare dal mondo esterno e dai suoi eventi.
Non c’è continuità tra la percezione ordinaria del tempo e ciò che accade nel tempo della seduta. È un’esperienza comune a tutti i pazienti. Il tempo della seduta non è mai un tempo cronologico, ma un tempo che può dilatarsi o restringersi, un tempo vissuto che rifiuta ogni misurazione quantitativa. Nello scorrere di questo tempo soggettivo rispetto al quale il tempo dei nostri orologi resta fatalmente esteriore, un posto centrale è occupato dalla presenza del terapeuta. Cosa la qualifica? Essa offre alle anime perse che le si rivolgono un ascolto totalmente inedito. È il punto sul quale è nata storicamente la psicoanalisi: l’offerta dello psicoanalista è innanzitutto l’offerta di un ascolto. Per questo, anche in questa serie televisiva, il ritratto dell’analista è giustamente il ritratto di un uomo silenzioso. Non si tratta di una posa sadica. Se l’analista deve poter custodire il silenzio, come afferma Lacan, è perché attribuisce un valore assoluto alla parola del paziente. Per questo l’ascolto dell’analista non assomiglia in nulla,
diversamente da quello che pensava Foucault, a quello di un confessore o di un giudice.
Nell’ascolto dell’analista non c’è giudizio morale, non c’è prescrizione di castigo, non c’è valutazione, non c’è misurazione e non c’è nemmeno pretesa di guidare le vite che ad esso rivolgono la loro parola. Lo diceva bene Lacan: uno psicoanalista non è un direttore di coscienza, non avanza la pretesa di condurre le vita ma deve limitarsi — il che non è poco — a condurre la cura. Dove si può trovare ancora oggi un ascolto così?
Quale parola interessa maggiormente all’analista? È questa domanda che ci rivela il grande assente della stanza dell’analisi di In treatment: è il divano che fu il protagonista dell’innovazione freudiana. Nel setting classico il paziente parla sdraiato sul divano e l’analista lo ascolta da dietro. Nessun divano in questa stanza d’analisi. Non è un dettaglio. È l’andazzo della psicoterapia contemporanea che ha assorbito la rivoluzione freudiana in un vis-à-vis empatico che cancella il carattere spigoloso dell’esperienza del divano. Anche in questa serie siamo per lo più di fronte a dialoghi tra Io senza sorprese, senza urti, senza grandi scompaginamenti perché non vige la sola regola alla quale Freud aveva attribuito un valore fondamentale. La presenza del divano coincide infatti con questa regola, quella dell’associazione libera («Mi dica tutto quello che le passa per la testa») che mette in movimento il soggetto dell’inconscio sospendendo le censure logiche e morali che solitamente organizzano il discorso cosciente e la dimensione comune del dialogo. È proprio su questo punto che si può cogliere tutta la differenza che passa tra una psicoterapia e una psicoanalisi. In questa serie televisiva le vite che si rivolgono al terapeuta parlano dei loro problemi più attuali, delle loro urgenze più assillanti (un tentativo di suicidio dissimulato, la scelta di una coppia se abortire o tenere un figlio, la difficoltà a occupare una professione che implica l’oltrepassamento della Legge quando dovrebbe tutelarne la funzione, l’innamoramento incontenibile per l’analista...).
Quello che non appare mai — il grande assente sulla scena — è l’inconscio. Forse perché si ritiene che anch’esso abbia fatto il suo tempo? Che esso sia un pezzo del museo delle cere dell’Ottocento? Ma non è forse questo il soggetto al quale tutti gli sforzi
dell’analista dovrebbero rivolgersi per farlo parlare? E dove parlerebbe in modo privilegiato il soggetto dell’inconscio se non attraverso il sogno? Ebbene, se non ricordo male, non c’è un solo sogno raccontato dai protagonisti di questa serie. La regola dell’associazione libera non è attivata. Il dialogo viene tutto centrato sull’attualità, come se queste vite fossero prive di storia. La dimensione verticale del passato non appare. Allora anche il luogo comune e assai inflazionato dell’innamoramento per l’analista è restituito seguendo le leggi di Sex and the City piuttosto che quelle assai più contorte del transfert analitico. Idem per la seduta (questa davvero inverosimile) di supervisione che ripropone il cliché dell’analista detective che spia i pensieri reconditi del terapeuta che ad essa si sottopone, magari forzandolo ad ammettere che l’innamoramento che la paziente (Sara) gli ha dichiarato in seduta lo aveva effettivamente turbato. La dimensione dell’interpretazione viene schiacciata brutalmente su quella dell’illazione. Mi hai chiesto una supervisione proprio adesso, dopo tutti questi anni, come mai? Ammetti che è perché sei rimasto turbato dalle avances della tua giovane paziente! Quando manca il soggetto dell’inconscio e la ricerca del carattere indistruttibile del desiderio, la tragedia delle vite rischia di trasformarsi in farsa. Perché l’inconscio è quel luogo dove bisogna andare se si vuole davvero vedere qual è la pasta di cui siamo fatti, se si vuole, come disse una volta Lacan a un esterrefatto Umberto Eco, «mangiare il nostro Dasein (Esserci)!».