Luigi Spezia, La Repubblica 5/4/2013, 5 aprile 2013
“NOI, POLIZIOTTI CONDANNATI PER ALDROVANDI CAPIAMO LA MADRE MA NON MERITIAMO IL CARCERE”
FERRARA — «Siamo uomini dello Stato. Accettiamo le decisioni prese, le sentenze. Ma vorremmo che la legge venisse applicata anche per le garanzie che dà. Pensavamo che venissero applicate le misure alternative e invece ci troviamo qua dentro, per un reato colposo. Non comprendiamo perché. Non meritiamo il carcere». Periferia di Ferrara, via dell’Arginone, ore dodici. In una stanza disadorna, di tre metri per tre e forse nemmeno, c’è un vassoio su un tavolino. Un piatto di pasta, una bistecca. Attorno al tavolino, nel poco spazio rimasto, ci sono due uomini quasi sull’attenti che parlano con il consigliere regionale del Pdl Galeazzo Bignami in visita al carcere. Si dimenticano del pasto e rimangono in piedi per tutto il tempo. Sono Paolo Forlani e Luca Pollastri, due dei quattro agenti che hanno provocato la morte di Federico Aldrovandi.
Sono rimasti solo loro due, dentro questo carcere. L’unica donna della squadra, la poliziotta Monica Segatto, ha ottenuto gli arresti domiciliari dal tribunale di Padova e si trova a casa sua a Verona. Il quarto agente, Enzo Pontani, è stato appena trasferito al carcere di Milano e i due colleghi sono preoccupati: «Lui non ci ha detto nulla, quindi l’hanno deciso a sorpresa. Non vorremmo che trasferissero anche noi. Qui, almeno, le nostre famiglie sono vicine». Hanno anche subito un altro colpo: è di pochi giorni fa la decisione del giudice di Bologna che ha rigettato la loro richiesta di andare ai domiciliari in base al decreto svuota-carceri «perché non hanno ancora compreso la gravità delle loro azioni».
Forlani e Pollastri pensano gli stessi pensieri, talvolta uno comincia una frase e l’altro la conclude. Non si sono mai viste tante loro foto in giro. Il primo è alto e robusto, felpa grigia, scarpe da ginnastica. Ha 53 anni, pochi mesi alla pensione. Ha sempre avuto i capelli cortissimi, ma da quando è qui se li è fatti crescere. L’altro è esile, felpa rossa e la stessa aria seria e un po’ marziale. Ha dieci anni meno del collega e ancora dodici di lavoro davanti. Quando il consigliere regionale si avvicina alla loro cella di isolamento (nessun contatto con altri detenuti, ora d’aria riservata, a loro tutela), sente che l’atmosfera è diversa. C’è lo stesso odore di cucina che impregna tutto il luogo di pena che ha visitato, ma si vede che questi due non sono detenuti come gli altri che si appoggiano alle sbarre o fanno battute agli agenti di custodia. Rimangono sempre seri «con dignità», osserva il consigliere regionale. «E non chiedono nulla alla politica».
Forlani e Pollastri non fanno polemiche, nemmeno raccontano l’operazione di polizia che la notte del 25 settembre 2005, in una via di Ferrara, lasciò senza vita un ragazzo di 18 anni sull’asfalto. «Non possiamo parlarne». In tempo di guerra i prigionieri dicevano solo nome e numero di matricola. Loro dicono solo due frasi da twitter, riguardo ai fatti: «I giudici hanno riconosciuto che il nostro è stato un reato colposo». E l’altra: «Quella notte siamo intervenuti perché siamo stati chiamati». Vogliono dire che se hanno sbagliato non l’hanno fatto volontariamente, non si sono scagliati contro Federico Aldrovandi che era agitato durante un controllo, ma «perché chiamati». Dovevano contenerlo, ma per come sono intervenuti, hanno finito per farlo morire. Il Tribunale di sorveglianza presieduto da Francesco Maisto, dopo la condanna in Cassazione a 3 anni e mezzo per «omicidio colposo con eccesso colposo» dell’uso della forza è stato durissimo, nel mandarli in cella, 6 mesi grazie all’indulto. «Una grave condotta delittuosa», per i giudici e «assenza di concreti segni di pentimento». Siete dispiaciuti per la morte di Federico? chiede il consigliere. «Sì, certo. Siamo addolorati come chiunque si trovi di fronte alla morte di un ragazzo di 18 anni».
All’avvocato Gabriele Bordoni, che nel pomeriggio va in carcere, Forlani dirà che «io vengo dipinto come un violento, ma tutte le volte che penso a quel ragazzo, penso con dolore che non siamo riusciti a evitare la sua morte». Una frase un po’ contorta per dire che quella morte non dà pace nemmeno a loro. Forlani è finito dallo psichiatra già nel 2005, ma poi, dopo la condanna, ha offeso pesantemente la madre di Federico, Patrizia Moretti: «Avete visto con che faccia da c... si è presentata in tv?». Poi ha chiesto scusa. E ora? Forlani ricorda solo di aver letto in udienza una lettera a Patrizia Moretti, alla quale Bologna ha concesso due giorni fa la cittadinanza onoraria con la reazione negativa della Lega. «La madre, capiamo benissimo il suo dolore di madre», dice lui. Il dolore che Patrizia Moretti ha provato ancora una settimana fa, quando è scesa in strada, icona di una madonna che mostra il figlio morto, per replicare alla manifestazione del sindacato di polizia Coisp a favore degli agenti in carcere, organizzata proprio sotto le finestre del suo ufficio. «Quella manifestazione? Sì, l’abbiamo saputo. Forse è nata con le migliori intenzioni, non è stata capita». Né a favore, né contro. Ancora una stretta di mano vigorosa. Il pasto sul tavolino intanto si è fatto freddo. L’attesa per la fine delle detenzione, il 29 luglio, continua.