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 2013  aprile 05 Venerdì calendario

I TROPPI VINCOLI NEL DECRETO DELLA DISCORDIA

Il «pateracchio» - ruvido copyright di Giorgio Squinzi - è ormai superato.

Destinato a essere sostituito da un testo che renda più effettiva la volontà - tante volte dichiarata da Parlamento e governo - di spostare finalmente almeno una parte dei pagamenti dovuti dalle casse della Pubblica amministrazione alle tasche delle aziende. Ma quel testo di decreto legge composto da quattordici pagine più allegati, che è arrivato ai ministeri nella serata di martedì e che il giorno dopo ha subìto più di un disconoscimento di paternità, resta un esempio della difficoltà di piegare vincoli burocratici e labirinti amministrativi alle esigenze delle imprese.

Ci sono, nella versione originaria del decreto, che nasce «considerata la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni volte ad accelerare il pagamento dei crediti vantati da privati nei confronti della pubblica amministrazione», assenze significative e intrecci problematici.

Tra le prime, ad esempio, si nota la mancanza di una norma che preveda come primo passo l’obbligo per tutte le amministrazioni pubbliche di rendere pubblico un elenco dei loro fornitori a cui devono ancora pagare le fatture. Insomma, si rinuncia a chiedere al settore pubblico uno sforzo per mettere insieme la cifra esatta di un monte debiti che al momento è affidata solo alle stime e che a seconda delle fonti oscilla tra i 90 e gli oltre 100 miliardi. Tra gli intrecci destinatia rendere più difficile l’attuazione del provvedimento c’è invece il «tavolo istituito presso il ministero dell’Economia e delle finanze» previsto al comma 5 dell’articolo 2 del decreto, che dovrà verificare gli adempimenti per Regioni e Province autonome che chiederanno liquidità per pagare i debiti e che risulta composto da rappresentanti di almeno cinque organismi o ministeri, dal «Dipartimento degli affari regionali alla Presidenza del Consiglio» alla «Segreteria della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano», più quelli delle Regioni stesse. Per mettere in piedi il tavolo tecnico, spiega chi è addentro a queste vicende, ci potrebbero volere anche diversi mesi.

A causare più di una perplessità anche la tripartizione dei Fondi per «assicurare la liquidità per pagamenti di debiti certi liquidi ed esigibili», che prevedeva anche una tripartizione di richieste e - probabilmente - di documenti. Il comma 9 dell’articolo 1, prevede infatti un Fondo che fa capo al ministero degli Interni, destinato a pagare i debiti degli enti locali, con «una dotazione di 2.000 milioni di euro per ciascuno degli anni 2013 e 2014». Al comma 1 dell’articolo 2 c’è per le Regioni e le Province autonome, un Fondo del ministero dell’Economia per pagare debiti «diversi da quelli finanziari e sanitari, con una dotazione di 3.000 milioni di euro per l’anno 2013 e di 5.000 milioni di euro per l’anno 2014». Infine, recita il comma 1 dell’articolo 4, «lo Stato è autorizzato ad effettuare anticipazioni di liquidità alle Regioni ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano» fino a 5 miliardi per il 203 e fino a 9 miliardi per il 2013 per pagare i debiti relativi al Sistema sanitario nazionale.

Tra i capitoli che hanno più sconcertato le imprese, specie quelle di costruzioni, quello sui vincoli cui saranno soggetti gli enti locali che chiedono all’amministrazione centrale l’anticipazione di liquidità per pagare: come recita il comma 12 dell’articolo 1, Comuni e Province non possono «per il triennio successivo impegnare spese correnti in misura all’importo annuale minimo dei corrispondenti impegni effettuati nell’ultimo triennio», né «ricorrere all’indebitamento per gli investimenti e prestare garanzie per la sottoscrizione di nuovi prestiti o mutui da parte di enti e di società controllate o partecipate». Ancora più duro il vincolo per le Regioni che chiedono anticipi di liquidità e per le quali il divieto a sforare sulle spese correnti e quello a indebitarsi per investimenti si allunga, come stabiliscono i commi 7 e 8 dell’articolo 2, a cinque anni. Proprio queste clausole hanno spinto le imprese a giudicare che gli enti locali erano non incentivati, ma disincentivati, a chiedere la liquidità di cui non dispongono per pagare i loro debiti.