Massimo Fini, il Fatto Quotidiano 3/4/2013, 3 aprile 2013
ENZO CHE SI PORTA VIA LA MIA MILANO
Di Enzo Jannacci non ne nasceranno più. Per la semplice ragione che la Milano che cantava è scomparsa da tempo e, per la verità, non esisteva già più, se non in qualche anfratto, anche ai tempi in cui, nostalgicamente, la celebrava.
Una volta gli dissi che in Ti te sè no, del 1964, peraltro bellissima, il verso Che bel ch’el ga de vèss èss sciuri, cunt la radio noeuva e, nell’armadio, la torta per i fieu (“Che bello che deve essere, esser signori con la radio nuova e nell’armadio, la torta per i figli”), suonava bizzarro perché nel dopo boom non solo la radio, ma la Tv ce l’avevano tutti. Enzo, che era un tipo un po’ puntuto, se ne risentì.
Ma in realtà Jannacci cantava una Milano da dopoguerra. Era, quella, la Milano dei quartieri, dell’Ortica, della Bovisa, della Barona, di Affori, di Baggio, delle periferie, viale Forlanini, Rogoredo (la minuscola stazione di Rogoredo resiste ancora, ma di fronte ha gli enormi, bianchi, sepolcrali sarcofaghi degli studi di Sky), non ancora stritolate fra l’avanzare della città e l’immenso hinterland. In quei quartieri, che conservavano il sapore del villaggio, in quelle periferie noi ragazzini giocavamo al calcio in strada. Mettevamo le cartelle a fare da porte e quando passava una macchina ci scansavamo. Il problema era sempre quello: se il tiro era stato troppo alto o se era il portiere a essere troppo piccolo. Era la Milano dei barconi sui Navigli che portavano la sabbia dalle cave fino alla darsena (Milano era allora il più importante porto di sabbia d’Europa). Era la Milano delle fabbriche (I s’era conossü visin a la Breda, lì l’era d’ Ruguréd e lü... su no. “Si erano conosciuti vicino alla Breda, lei era di Rogoredo, lui non so”), della Pirelli-Bicocca, dell’Innocenti, dell’Alfa Romeo, della Richard Ginori, della Borletti, che stavano, come sentinelle, alle soglie della città.
ERA LA MILANO degli strascée (Andava a Rogoredo, vosava come un strascée, “Andava a Rogoredo e gridava come uno straccivendolo”), degli arrotini, del contadino che veniva a portarti le uova, i pomodori, la frutta a casa perché la città era ancora parzialmente integrata con la campagna. Era la Milano di una malavita minore, di ladri di “ruote di scorta di micromotori”, di galline e di polli (chi mirava ai tacchini apparteneva già a una categoria superiore: “Io non conoscevo i tacchini, ero appena avanguardista, chi conosceva i tacchini era giovane e fascista”. In Jannacci, che era del 1935, c’erano reminiscenze del regime). Ma anche la malavita vera, quella che non metteva un “guercio” a fare il palo come la squinternata banda dell’Ortica, era un’altra cosa. Era professionale. Nella famosa rapina di via Osoppo (1958), che impegnò le pagine dei giornali per mesi, e ancora oggi la si ricorda, non ci fu un morto né un ferito. I locali più sicuri erano proprio quelli della “mala” cantata da Jannacci e dalla Vanoni (Ma mi, ma mi... mi sont de quei che parlen no, “Ma io ma io, io sono di quelli che non parlano”).
Ma quella Milano stava cambiando. Insieme all’Italia. E uno dei segnali venne proprio dal mondo della musica leggera. Nel 1958 al Santa Tecla a fianco della Statale, Tony Dallara, con i suoi Campioni, aveva spazzato via la canzone melodica italiana, gli intollerabili Villa, Tajoli, Pizzi, col “singhiozzo” che aveva preso in prestito dai Platters (“Co-ome prima, più di prima t’amerò”) e con l”urlo” che era invece roba sua.
Erano nati gli “urlatori” di cui Dallara fu l’indiscusso capostipite. La prima Mina lo imitava (Tintarella di luna), in quanto a Celentano, al Santa Tecla pure lui, faceva le facce di Jerry Lewis, l’attore, scambiandolo per il famoso rocker americano Jerry Lee Lewis. Come sempre non aveva capito niente. Intanto alla Trattoria della Magolfa, sui Navigli altri menestrelli facevano gavetta, chiedendo alla fine delle loro esibizioni il regolamentare obolo. I più bravi approdavano al Derby di Enrico Intra, tappa obbligata a Milano per l’inizio di ogni carriera di musicista.
Anche Jannacci aveva cominciato, nel 1959, al Santa Tecla ma era arrivato quasi subito al Derby. E vi portò il suo stile singolarissimo. Non era un urlatore, non era un rockettaro, non era propriamente nemmeno un cantautore, alla Paoli o alla Tenco.
FACEVA un cabaret musicale stralunato, strampalato, paradossale, surreale. Unico. Inimitabile. Anche perchè stralunata era la sua antropologia, la sua faccia, il suo corpo che si muoveva a scatti, schizofrenico. Cantava storie minime di gente minima, storie disperate venate di ironia, con punte di esilarante comicità. Ma ironico o comico che fosse c’era sempre in Jannacci un sottostrato di profonda malinconia che io credo sia stata la cifra più autentica della sua arte. Tanto è vero che se si riascoltano le canzoni di cui è il solo autore, senza gli apporti di Fo, di Conte, di Strehler o di altri, come Ti te sé no o E l’era Tardi (E l’era tardi, l’era tardi in quèla sera straca che m’é vegnù el bisogn’ d’on mila franch’ per quattà ‘na trata, “Ed era tardi, era tardi in quella sera stanca che ho avuto bisogno di un mille lire per coprire una cambiale”), ogni ironia é scomparsa, c’è solo struggimento, (del resto l’umorista è quasi sempre un melanconico, si pensi ad Achille Campanile o a Paolo Villaggio).
Ma negli anni ‘80, insieme a Gaber, apparve improvvisamente in Tv (cosa rara), entrambi con un paio di enormi e impudenti occhiali da sole, in una interpretazione scatenata e rockettara, stile Blues Brothers, della beffarda Una fetta di limone nel tè. In quel momento erano solo due ragazzacci quarantenni che, dimentichi delle paturnie consuete, avevano solo voglia di divertirsi. E così mi piace oggi ricordarli.