Salvatore Cannavò, il Fatto Quotidiano 3/4/2013, 3 aprile 2013
ACCORDI E IMBOSCATE LA CORSA DEL PRESIDENTE
Chissà se qualche parlamentare grillino avrà il coraggio di portare un apriscatole al nuovo presidente della Repubblica quando sarà eletto. Gli basterebbe la metà dell’ironia che contraddistinse il leader comunista Giancarlo Pajetta, nel 1955, quando fece arrivare al presidente del Consiglio in carica, Mario Scelba, un bicchierino di Cynar al tavolo della presidenza. “Almeno si consolerà della sconfitta subita”, scrisse nel bigliettino. L’aneddoto è raccontato nel programma “Q” di Rai-Storia secondo il quale “la storia dell’elezione del Presidente rappresenta “il vero filo rosso della nostra politica”.
Le regole di elezione della massima carica istituzionale sono sempre le stesse. Quelle non scritte, però, sono altre. A due anni dalla scadenza del mandato iniziava “la crisi di fine settennato” – come racconta Rino Formica, storico esponente socialista al fianco di Craxi – in una partita governata sostanzialmente da tre regole: “L’equilibrio tra le correnti interne della Dc; quello tra Dc e i partiti di governo; quello tra governo e l’unico grande partito di opposizione, il Pci”.
In ossequio alla prima regola, i presidenti erano deboli, cioè “non avevano una propria corrente o un peso rilevante nel partito”, aggiunge Paolo Cirino Pomicino, esperto manovratore democristiano. Uomini come De Gasperi, Moro, Fanfani o Andreotti non sono mai saliti al Quirinale. Le elezioni erano rapide. Enrico De Nicola viene eletto al primo scrutinio, Luigi Einaudi al 4° con il 60 per cento dei voti. Al quarto anche Giovanni Gronchi ma con il 78% e l’adesione convinta del Pci. Più tormentata la lotta per l’elezione di Antonio Segni, al 9° scrutinio, blindato con il 52% dei voti, compresi quelli, allora scandalosi, del Msi. Per aprire ai socialisti al governo Aldo Moro dovette consegnare il Quirinale alla destra interna scontrandosi con Fanfani.
DOPO LE DIMISSIONI anticipate di Segni, travolto dal “tintinnar di sciabole”, si apre un varco per l’elezione del primo socialista, sia pure moderato: Giuseppe Saragat. “Solo la crisi, vera, della Dc, aprì una strada a Saragat e Pertini” ricorda Formica. Ma i segni di quella lotta sono visibili nei 21 scrutini necessari a raggiungere il 69% dei voti.
Nel 1971 si torna all’equilibrio tra le correnti Dc. E quindi a un presidente “debole”, Giovanni Leone, anche lui “blindato” dalla maggioranza di governo e dall’appoggio del Msi. Chi ne fa le spese è ancora l’uomo forte del partito, Amintore Fanfani. E anche stavolta lo scrutinio si prolunga fino alla 23sima votazione, la più lunga di sempre. Anche Giovanni Leone si dimette in anticipo, sia pure per pochi mesi, sopraffatto dallo scandalo delle tangenti Lockeed - a cui poi risulterà estraneo. Ma gli ultimi mesi del settennato sono soprattutto quelli del rapimento Moro che fanno deflagrare la crisi della Dc. Da qui, e dal bisogno di pulizia, nasce la presidenza diversa e unitaria di Sandro Pertini. L’ex partigiano detiene il primato del più ampio consenso: 83 per cento dei voti raggiunti, però, al sedicesimo scrutinio. La candidatura sconta la paradossale ostilità del segretario socialista, BettinoCraxi, che vede Pertini troppo legato al Pci. Craxi punta su Giuliano Vassalli e su Antonio Giolitti, entrambi bocciati da Berlinguer. Pertini ottiene il quasi plebiscito e, nella crisi italiana di fine anni 70, la sua presidenza è un punto di riferimento e apre a nuovi cambiamenti. Sarà lui, infatti, a nominare prima Giovanni Spadolini e poi Bettino Craxi a Palazzo Chigi, la prima volta senza Dc.
L’elezione del 1985, invece, costituisce il capolavoro dell’allora segretario democristiano, Ciriaco De Mita che incastra alla perfezione le tre regole. Francesco Cossiga, infatti, diviene capo dello Stato al primo scrutinio con il 76% dei voti. Anche Cossiga è “debole”, fatta eccezione per l’ultimo anno in cui, intuendo il tracollo di un regime, cerca di guidare un’impossibile transizione. Siamo al punto di svolta, al 1992. Il vecchio assetto, formato dal Caf - Craxi, Andreotti, Forlani - cerca di blindarsi dividendosi Quirinale, Palazzo Chigi e segreteria Dc. Ma lo scontro tra Andreotti e Forlani è furibondo. Lo stallo è tale che si arriva al 15° scrutinio senza ancora un esito. La bomba di Capaci del 23 maggio impone alla politica di trovare unità e decisione. Era stato Marco Pannella il primo a proporre Scalfaro che, appoggiato da Forlani e Craxi, ottiene anche il sì del Pds di Achille Occhetto. Sarà eletto, con il 67% dei consensi.
LA CRISI DI TANGENTOPOLI sfarina i partiti tradizionali e la presidenza della Repubblica diviene il potere più stabile e più forte. “È qui che assistiamo a una mutazione genetica della Presidenza - osserva Pomicino - potere forte contro partiti sempre più fragili”. Un marcato interventismo unifica la triade Scalfaro-Ciampi-Napolitano, esposti anche alla prova europea. Lo stesso Giorgio Napolitano, pur eletto, come Segni e Leone, solo dalla maggioranza assoluta, con il 54% dei voti - stavolta il leader sacrificato sarà Massimo D’Alema - viene ricordato come un presidente “di tutti”. Alla stregua di Carlo Azeglio Ciampi che nel 1999 è invece eletto, da Veltroni e Berlusconi, al primo scrutinio con il 70%. Il primo nell’Italia bipolare.