Dario Di Vico, Corriere della Sera 04/04/2013, 4 aprile 2013
L’ACCIAIO, LE FAMIGLIE E LA VIA DELLE FUSIONI
Dal palco milanese di Made in Steel, la più importante rassegna italiana della siderurgia, il professor Antonio Gozzi presidente di Federacciai lo dice a chiare lettere: «Nei prossimi anni ce lo sogniamo di continuare a produrre come oggi 27 milioni di tonnellate di acciaio, la domanda non regge assolutamente questi carichi. E non basta, come stiamo facendo, ristrutturare e introdurre efficienza nelle singole aziende. Per avere costi sostenibili e sopportare la riduzione dei volumi dobbiamo lavorare per razionalizzare il settore e trovare combinazioni societarie. So bene che sto parlando di aziende con una lunga tradizione di imprenditoria familiare, concorrenti tra loro e che operano spesso sugli stessi territori ma non c’è alternativa. Diciamocelo». La siderurgia italiana, come il resto dell’industria, sta vivendo una stagione particolarmente difficile e non solo per le questioni ambientali esplose a Taranto con il caso Ilva.
I prezzi dei prodotti finiti calano e aumenta invece il costo delle materie prime. L’edilizia che assorbe il 50% delle vendite italiane di acciaio è in stato comatoso e complessivamente oggi la siderurgia sfrutta in media il 60% della sua capacità produttiva installata. «Il che per un’industria che vive sui volumi è un autentico dramma» sottolinea Gozzi. Al quinto anno della Grande Crisi dal punto di vista del mercato siamo ai livelli del 2009 ma nel frattempo quelle che erano aziende ben patrimonializzate non lo sono più, hanno dovuto far fronte alle necessità di avere liquidità e spesso si trovano con lo «stress clienti». Tradotto prosaicamente: con chi ordina e poi non paga. Tra i siderurgici italiani i tedeschi in questo momento non sono amatissimi, alla signora Merkel vengono imputate le scelte recessive che stanno piegando l’Europa e per i colleghi industriali l’accusa è di non esser capaci di farsi sentire dal loro governo, nonostante crisi aziendali come quella della Thyssen. È vero che di fronte a questi shock di mercato e di competizione asimmetrica ci sono singole imprese che reagiscono innovando (e Gozzi dal palco ne ha citate soprattutto due: la cremonese Arvedi e la bresciana O.R.I. Martin) ma è ora di riorganizzare l’offerta, altrimenti i gruppi familiari si schianteranno uno alla volta. Oppure, dicono nei saloni di Made in Steel, diventeranno preda di acquirenti asiatici visto che gli europei hanno le mani legate dall’antitrust di Bruxelles e non possono crescere come vorrebbero.
Nella strategia di collaborazione tra vicini di casa non si parte fortunatamente dal prato verde. «Il gioco cooperativo», come lo chiamano in gergo, è già cominciato. È nato tra gli operatori italiani un consorzio per l’acquisto del rottame all’estero e si sono anche costruiti consorzi di imprenditori siderurgici per l’acquisto di elettricità in connessione con l’estero. Episodi importanti che farebbero propendere per un cambio di mentalità in corso. «I giovani capiscono di più dei loro padri che è scoccata l’ora di cambiar marcia» dicono i bene informati, ma concordano che il passo più importante (e decisivo) è ancora tutto da fare. Già pronunciare la parola «fusione» rappresenta un piccolo strappo, mettere assieme le aziende si rivelerà un’operazione dai contorni quasi antropologici, l’imprenditore tipo dovrà capire che in un business come quello dell’acciaio, dove le dinamiche della globalizzazione sono state anticipate, le dimensioni consigliano di sbagliare meno che altrove. In gioco ci sono non solo le ambizioni di qualche capitano d’industria ma migliaia di posti di lavoro. «Fare presto» in concreto vuol dire al massimo due o tre anni. La cosa incoraggiante è che chiedendo pareri in giro il ritorno è positivo. Giuseppe Pasini, bresciano, è l’ex presidente di Federacciai. «Mi chiede se sono d’accordo con Gozzi? Di più. I consumi non torneranno più quelli di prima e la concentrazione del settore è necessaria». «Necessaria? Direi obbligata» aggiunge e corregge un altro imprenditore bresciano, Ruggero Brunori. E sulla stessa lunghezza d’onda c’è anche Roberto De Miranda della citata O.R.I. Martin.
Proviamo allora a uscire dal generico e a dare nomi e cognomi alle aziende che dovrebbero in un futuro abbastanza prossimo fondersi. Posto che nel segmento degli acciai piani la riorganizzazione c’è già stata attorno a due player importanti come Arvedi e il gruppo Riva, è negli altri comparti che il lavoro è più indietro. Nei lunghi gli operatori di successo si chiamano Stabiumi e Lonati, Pittini, Leali, Pasini e Brunori. Tutte aziende di una certa caratura e spesso con impianti anche all’estero. Nei lunghi speciali ci sono i veneti Banzato e Beltrame, Stefana, Duferco e negli inox Marzorati e Amenduni. Si badi, sono tutte aziende che in altri settori verrebbero catalogate tra le grandi e invece sono considerati «pesi leggeri» in un mondo come quello della siderurgia dove s’avanzano ormai colossi come la cinese Hebei che produce 100 milioni di tonnellate d’acciaio l’anno.
Dario Di Vico