Martin Wolf, Il Sole 24 Ore 3/4/2013, 3 aprile 2013
PER PECHINO UNA STRADA ACCIDENTATA
Nel prossimo decennio la crescita della Cina rallenterà, forse in misura drastica. Non è l’opinione di qualche straniero malevolo, è l’opinione del Governo cinese. L’interrogativo è se questo rallentamento avverrà in modo controllato o all’improvviso. Dalla risposta dipende il futuro non soltanto della stessa Cina, ma anche di buona parte del mondo.
Il pensiero ufficiale delle autorità cinesi è stato esposto il mese scorso in occasione del China Development Forum organizzato dal Centro di ricerca sullo sviluppo (Drc) del Consiglio di Stato, che ha riunito influenti economisti stranieri e alti funzionari cinesi. Fra gli studi preparatori ce n’era uno elaborato da economisti del Drc e intitolato "Prospettive nei prossimi dieci anni: declino del tasso di crescita potenziale e inizio di una nuova fase della crescita": la tesi è che la crescita della Cina rallenterà, dai tassi di oltre il 10% registrati fra il 2000 e il 2010 a un 6,5% fra il 2018 e il 2022. Questo declino, osservano gli autori, è coerente con il rallentamento registrato dal secondo trimestre del 2010.
Il saggio segnala due possibili ragioni per questo calo della crescita: una è che la Cina potrebbe essere vittima della middle-income trap, l’industrializzazione abortita che imprigiona un paese in via di sviluppo arrivato a un livello di reddito medio, impedendogli di fare il salto successivo; l’altra è che la Cina stia gestendo l’"atterraggio naturale" che si verifica quando un’economia comincia ad avvicinarsi ai livelli di reddito delle economie avanzate. Quest’ultimo scenario lo abbiamo visto in Giappone negli anni 70 e in Corea del Sud negli anni 90. Secondo il Drc, alla fine anche la Cina, dopo 35 anni di crescita al 10%, sta seguendo la stessa strada.
La tesi è plausibile per diverse ragioni. La prima è che i margini di investimento in infrastrutture si sono "ridotti notevolmente", con la quota di investimenti in attività fisse scesa dal 30 al 20% nell’ultimo decennio. La seconda è che il rendimento delle attività è diminuito e la sovracapitalizzazione è schizzata alle stelle. La seconda è che il rapporto marginale capitale-prodotto ha raggiunto nel 2011 un valore di 4,6, il più alto dal 1992: i soldi che vengono investiti ora producono meno crescita. La terza è che la crescita dell’offerta di manodopera è calata drasticamente. La quarta è che l’urbanizzazione continua a correre, ma a ritmo meno sostenuto. Da ultimo, la situazione finanziaria degli enti locali e il mercato immobiliare presentano profili di rischio crescenti.
L’insieme di ragioni è indizio sufficiente del fatto che siamo di fronte all’inizio di una transizione verso una crescita più lenta. Per analizzare le prospettive in modo più rigoroso, il saggio propone un modello economico il cui risultato più significativo sta in questa inversione di tendenze da tempo consolidate. Gli investimenti in beni capitale sono saliti al 49% del Pil nel 2011, ma secondo le previsioni scenderanno al 42% nel 2022. Al contempo, la quota dei consumi sul Pil dovrebbe salire nello stesso periodo dal 48 al 56 per cento. E ancora: la quota dell’industria dovrebbe scendere dal 45 al 40% del Pil, mentre quella dei servizi balzerebbe dal 45 al 55 per cento. L’economia è trainata dai consumi invece che dagli investimenti. Sul versante dell’offerta, il fattore principale del declino della crescita sta nel crollo della crescita dello stock di capitale come conseguenza del calo degli investimenti.
L’idea che questo rallentamento della crescita sia imminente appare plausibile. Ma si può proporre anche una visione più ottimistica. Secondo i dati del Conference Board, il Pil pro capite della Cina (a parità di potere d’acquisto) è lo stesso del Giappone nel 1966 e della Corea del Sud nel 1988: nei due Paesi al raggiungimento di quel livello di reddito fecero seguito sette e nove anni di crescita superveloce. Rispetto ai livelli di reddito degli Stati Uniti, la Cina si trova nella situazione in cui si trovava il Giappone nel 1959 e la Corea del Sud nel 1982: ciò suggerisce un potenziale di crescita ancora maggiore. Il Pil pro capite della Cina è poco più di un quinto di quello Usa: sembra ci sia ancora parecchia strada da percorrere. Ma questa visione ottimistica non è inattaccabile. La Cina è in un ordine di grandezza più grande, perfino del Giappone. Le sue opportunità, specialmente nell’economia mondiale, sono per forza di cose relativamente più limitate. Inoltre, come ha detto spesso l’ex premier Wen Jiabao, la crescita è stata finora "squilibrata, scoordinata e insostenibile". È vero sotto diversi aspetti, ma il più significativo è la dipendenza dagli investimenti, non solo come fonte di incremento della capacità produttiva, ma anche come fonte di domanda. Tassi di investimento in costante ascesa non sono sostenibili, perché i profitti dipendono da un aumento dei consumi.
È qui che emerge una visione molto più pessimistica: come l’esperienza del Giappone dimostra, gestire il passaggio da un’economia da alto a basso tasso di investimenti e di crescita è un’operazione molto insidiosa. Vi vedo almeno tre rischi. Il primo è che se la crescita attesa cala da oltre il 10% a, poniamo, il 6%, il tasso necessario di investimenti in capitale produttivo calerà drasticamente. Con un rapporto marginale capitale-prodotto costante, scenderebbe dal 50 al 30% del Pil. E se questo avvenisse repentinamente, basterebbe da solo a innescare una depressione. Il secondo rischio è dato dal fatto che il grosso incremento del credito si è accompagnato a una marcata dipendenza dall’immobiliare e da altri investimenti con prodotto marginale in calo. Anche per questo motivo il calo della crescita finirà probabilmente per produrre un aumento dei crediti inesigibili, anche e soprattutto sugli investimenti realizzati in base al presupposto di un mantenimento dei livelli di crescita passati. La fragilità del sistema finanziario potrebbe aumentare fortemente, anche e soprattutto nel sistema bancario ombra in rapida espansione. Il terzo rischio, considerando che ci sono pochi motivi per aspettarsi un calo del tasso di risparmio delle famiglie, è che per sostenere il previsto aumento dei consumi rispetto agli investimenti serve un corrispondente spostamento del reddito dalle imprese - incluse le imprese di Stato - alle famiglie. Questo può succedere: la crescente scarsità di manodopera e un passaggio a tassi di interesse più alti potrebbero garantire che questa evoluzione si svolga senza intoppi. Ma anche così c’è chiaramente il rischio che il calo dei profitti che ne risulterebbe possa accelerare il tracollo degli investimenti.
Il piano del Governo, naturalmente, è di realizzare senza scossoni la transizione a un’economia più equilibrata e a più lenta crescita. È senz’altro possibile: il Governo cinese dispone di tutte le leve necessarie e l’economia continua ad avere un grosso potenziale. Ma gestire un calo del tasso di crescita senza un tracollo degli investimenti e uno sconvolgimento finanziario è molto più insidioso di quello che suggerisce un modello di equilibrio generale.
Gli esempi di economie che per molti anni hanno registrato un andamento superlativo ma poi non sono riuscite a gestire l’inevitabile rallentamento non mancano, Giappone in testa. La Cina può evitare di seguire la stessa sorte, anche perché ha ancora grosse potenzialità di crescita. Ma la possibilità di incidenti imprevisti è elevata. Non mi aspetto che uno possa bloccare del tutto l’ascesa della Cina, ma il decennio che viene potrebbe essere molto più accidentato di quello trascorso.
(traduzione di Fabio Galimberti)