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 2013  aprile 04 Giovedì calendario

RIVA, CINQUANT’ANNI DI SARDEGNA

Cinquant’anni a Cagliari. O meglio, cinquant’anni da sardo. Mezzo secolo da vagabondo, ma profondamente sardo, come si definisce Gigi Riva nei giorni delle sue nozze d’oro con la Sardegna, frugando tra mille ricordi, di vita prima che di calcio. Dalla diffidenza di un diciottenne, sbarcato controvoglia su un’isola sconosciuta, alla dolcezza di un nonno che si illumina parlando dell’ultima nipotina.
Riva, quando è incominciata la sua Sardegna? «In aereo. Stavamo tornando da Roma, a metà marzo del 1963, dopo una partita vinta con la nazionale Juniores contro la Spagna, quando si avvicinò Lupi, mio allenatore del Legnano, per dirmi tre parole, non una di più: "Ti abbiamo venduto".
«Eravamo Pensai al Bologna, perché Bernardini sulla prima pagina della "Gazzetta" aveva detto che gli piacevo, o all’Inter che mi seguiva ed era la mia squadra del cuore. Lupi non aggiunse altro e allora gli chiesi: "Venduto a chi?". Mi rispose "Al Cagliari" e per me era come se fosse caduto l’aereo. Gli dissi subito che non ci sarei mai andato, a costo di rimanere fermo un anno e lui sapeva che ero testardo».
E invece? «Quando arrivai a casa, mia sorella Fausta, che mi faceva da mamma, mi invitò a riflettere e dopo qualche giorno di resistenza raggiungemmo un compromesso. Il presidente del Legnano, Caccia, un brav’uomo che non voleva perdere 37 milioni, tanti soldi allora, mi propose di andare qualche giorno a Cagliari, con la promessa di stracciare il contratto se non mi fossi trovato bene. E così in un giorno di primavera, ma non ricordo quale, andai con mia sorella e Lupi».
Come fu il primo impatto? «Partimmo la mattina da Milano con un turboelica che fece scalo a Genova e poi ad Alghero.
Arrivammo a Cagliari di sera e quando vidi le luci nel golfo mi lasciai scappare: "Quella è l’Africa". Lupi si arrabbiò e mi diede un calcio nel sedere. Il giorno dopo andai al campo, l’Amsicora, che non aveva un filo d’erba e pensai "Dove sono capitato". Però i ragazzi mi fecero festa e l’argentino Longo, una bella persona, mi prese subito sotto la sua protezione. Rimasi qualche giorno e l’idea di passare dalla C alla B alla fine mi convinse ad accettare».
L’inizio della nuova stagione fu più facile? «I primi mesi sono stati tristi, alle nove di sera non girava più nessuno. Stavo con gli altri scapoli, Cera, Nenè, Tomasini. Non avevo la patente e mi aggrappavo dietro al tram per andare da via Roma a casa, senza pagare. Poi presi in comproprietà una Fiat 600 con Cera e Cappellaro, andando a guidare di nascosto sulla pista dello stadio, per imparare.
L’istruttore un giorno mi disse che mi avrebbe dato la patente se avessi segnato la domenica.
Feci una doppietta a Verona e arrivò la patente».
Aveva amici fuori dal calcio? «Soprattutto pescatori, a cominciare da Martino. Mi voleva bene come un figlio, fu uno dei primi a invitarmi a casa sua, dove mi inse- gnò a mangiare il pesce con le mani, lasciando soltanto le lische».
Quando ha capito di amare la Sardegna? «Andando nelle case dei pastori e negli ovili. Una volta mi portarono in un paesino, a Seui, in provincia di Nuoro mi pare, e sulla credenza di un’anziana, notai anche una mia foto, tra i santini dei suoi genitori. L’amico che mi accompagnava chiese perché c’era la mia foto e la donna, senza riconoscermi, rispose: "Quello è buono"».
E’ vero che frequentava anche il latitante Mesina? «La storia è diversa. Mesina ogni tanto mi spediva lettere con regolare francobollo, dove abitavo in via Diaz 30, con queste parole in stampatello: "Domenica vengo a vedere la partita. Vinciamo, forza Paris", che in dialetto vuol dire "forza insieme". Ne parlai con Cera, il capitano, che mi disse di bruciarle e ogni volta le bruciavo.
Era un segreto tra noi due. Nessuno seppe mai niente, ma dietro le panchine mi è sembrato di vedere più volte Mesina in tribuna, con la barba, sempre immobile.
Poi quando gli hanno dato la grazia, ci siamo visti qualche volta a cena dal mio amico Giacomo, perché adesso Mesina è un uomo libero. Pensi che fa la guida, autorizzata dalla Regione, per far conoscere l’isola ai turisti stranieri accompagnandoli su un’auto blu con autista».
Quanto ha influito lo scudetto sulla sua scelta di rimanere in Sardegna? «Molto, anche se la Sardegna mi aveva già conquistato. Quando vedevo la gente che partiva alla 8 da Sassari e alle 11 lo stadio era già pieno, capivo che per i sardi il calcio era tutto. Ci chiamavano pecorai e banditi in tutta Italia e io mi arrabbiavo. I banditi facevano i banditi per fame, perché allora c’era tanta fame, come oggi purtroppo. Il Cagliari era tutto per tutti e io capii che non potevo togliere le uniche gioie ai pastori.
Sarebbe stata una vigliaccata andare via, malgrado tutti i soldi della Juve. Dopo ogni partita spuntava Allodi che mi diceva "Dai, telefoniamo a Boniperti". Ma io non ho mai avuto il minimo dubbio e non mi sono mai pentito».
Che cosa le piace della Sardegna? Il verde delle foreste dell’Ogliastra, in cui cammini per venti minuti senza vedere il cielo».
E dei sardi che cosa le piace? «La generosità. Mi hanno sempre fatto sentire uno di loro, attorno a tavolate con salsicce e maialino.
E poi abbiamo lo stesso carattere, non ci mettiamo in mostra, siamo silenziosi. Voglio bene a Leggiuno, alle mie sorelle e ai miei nipoti lombardi, ma torno sempre volentieri qui, perché mi sento un vagabondo sardo».
Con eredi ancora più sardi...
«Ormai sono sei, tutti nati qui.
Mio figlio Mauro, che ha una bambina, è il più sardo della famiglia, parla anche il campidanese, il dialetto di qui, guai a prendere in giro i sardi davanti a lui. Nicola ha tre femmine e l’ultima, Gaia, ha meno di un mese».
E un giorno racconterà anche a lei la bellissima storia del nonno Gigi che non ne voleva sapere di venire a Cagliari.