Elisabetta Del Soldato, Avvenire 4/4/2013, 4 aprile 2013
GRAN BRETAGNA A CACCIA DELL’ORO NEL PACIFICO
La Gran Bretagna spera di riuscire a guadagnare 40 miliardi di sterline, circa 46 miliardi di euro, e iniettare così nuova vita nell’agonizzante economia del Paese, dalla raccolta di noduli ricchi di metalli preziosi che si trovano sul letto dell’oceano Pacifico, a quattro chilometri di profondità.
Qualche giorno fa il premier David Cameron ha annunciato che la compagnia britannica UK Seabed Resoruces - una sussidiaria del gigante della Difesa Lockheed Martin - ha ottenuto la licenza di prelevare da un’area di 58 km quadrati di acque internazionali a largo del Messico e delle Hawai, noduli polimetallici della grandezza di una palla da tennis che sarebbero ricchi di metalli (tra cui rame, nickel, cobalto e manganese) molto utili all’industria dei computer, delle comunicazioni e della Difesa.
Il via libera alla compagnia britannica è giunto dalla International Seabed Authority, un ente intergovernativo fondato originariamente dalle Nazioni Unite che stipula contratti con società private e pubbliche e altri enti autorizzati a esplorare i fondali marini internazionali. «Questa licenza ha detto Cameron - premia il talento della Gran Bretagna, ed è un’ottima notizia per la nostra economia ». Il metodo della raccolta è sicuro, ha rincarato Stephen Ball, amministratore delegato del ramo britannico della Lockheed Martin, «ed è stato brevettato dagli scienziati e ingegneri più rispettati del Regno». Da una profondità di quattro km, ha continuato Bell, «i noduli possono essere raccolti usando una combinazione di veicoli sottomarini telecomandati, pompe e aspiratori già usati nell’industria del petrolio ». E non farà rizzare i capelli agli ambientalisti, perché, ha precisato l’amministratore delegato, «la tecnica di aspirazione dei fondali non disturberà affatto l’ecosistema marino».
Ma le critiche all’iniziativa sono piovute numerose già da diverse fonti. Gli ambientalisti, tutt’altro che rassicurati, hanno reagito dicendo che è impossibile garantire l’incolumità dell’ecositema marino, quando un’area così ampia del Pacifico verrà praticamente aspirata come si fa con un tappeto. E qualche giorno fa il Times metteva in discussione l’etica dell’operazione, chiedendosi come fosse possibile distribuire equamente una ricchezza ottenuta da acque internazionali e sollevava dubbi riguardo l’International Seabed Authority, un ente intergovernativo con sede in Giamaica che, scriveva, «è ancora troppo poco conosciuto ». Infine anche il Guardian, attraverso un corsivo, cercava di smorzare gli entusiasmi sottolineando come «negli ultimi vent’anni, nonostante vari tentativi di raccogliere noduli polimetallici dal fondo marino, non si è mai giunti a un risultato che producesse guadagni concreti».