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 2013  aprile 04 Giovedì calendario

E DOPO GHEDDAFI NON CI FU IL DILUVIO

Qualcuno ha detto che la Li­bia è come quei bambini che stanno imparando a camminare: il passo è in­certo e non sai mai quando possa­no cadere. Eppure, a dispetto degli ondeggiamenti, continuano ad andare avanti. In effetti – per quanto siano evidenti tutti i pro­blemi e le difficoltà – il fragile si­stema politico nato con la caduta di Gheddafi nel 2011 ha saputo fi­nora resistere alle spinte centrifu­ghe e alle proprie contraddizioni.
Ma affidarsi alla buona sorte non è mai una politica saggia: è tempo che Tripoli fornisca risposte alle ri­chieste sempre più pressanti di stabilizzazione e riorganizzazione interna.

Una celebrazione pacifica
A metà febbraio, ad esempio, per le celebrazioni del secondo anno dell’inizio della rivoluzione contro Gheddafi si temeva il peggio. Tan­to che diverse compagnie aeree a­vevano sospeso i voli per Tripoli e qualche Paese aveva consigliato ai propri cittadini di abbandonare la Libia. Lo stesso governo, per timo­re di scontri sanguinosi e di vio­lenze aveva ridotto al minimo i fe­steggiamenti. Non è successo nul­la, invece. Le celebrazioni ci sono state ugualmente, spesso organiz­zate spontaneamente dai cittadini o dalle tribù: con una partecipa­zione popolare incredibile, fuochi d’artificio, comizi, musica, ban­diere. Per tutto il mese di febbraio, alla sera, nella grande piazza di­nanzi il palazzo degli ottomani, o­ve il colonnello era solito lanciare i suoi proclami, una folla variopinta si ritrovava per festeggiare: giovani che lanciavano fuochi d’artificio, reduci della rivoluzione con un caleidoscopio di divise dai colori e dalle forme diverse, islamisti bar­buti che celebravano la vittoria o ascoltavano il comizio di un loro ulema, famiglie con bambini, ra­gazze. Ma sempre senza incidenti o spargi­menti di sangue. U­na dimo­strazione di maturità e di sostegno al nuovo si­stema poli­tico che ha sorpreso molti, den­tro e fuori la Libia, ma che non può nascondere le difficoltà nel gestire le troppe milizie e le troppe armi circolanti nel Paese.

La questione sicurezza
Quando si parla dei problemi del­la Libia, la risposta è infatti quasi univoca, sia che venga da politici, amministratori, esponenti della società civile, giornalisti: il nodo fondamentale è la sicurezza. Non che le cose vadano malissimo, an­zi: la Tripolitania è più stabile di quanto si pensasse e in fondo an­che in Cirenaica ci sono alcuni in­dicatori positivi. Ma il fatto è che il governo rimane fragilissimo in questo campo: dovessero riesplo­dere le violenze, le gracili forze di sicurezza nazionali rischierebbero di sfilacciarsi nuovamente, dato che il loro nucleo è formato da mi­lizie ’riverniciate’ da esercito na­zionale. Dopo aver subito decenni di tirannia, ora il potere è estrema­mente restio a usare la forza: ad e­sempio, il parlamento di Tripoli (Consiglio generale nazionale) viene periodicamente occupato dagli ex-combattenti (o presunti tali), che invocano cure all’estero e finanziamenti. L’ordine è sempre stato quello di non fermarli con le armi, ma di farli entrare. Solo nell’ultimo mese si è iniziato a mostrare più determinazione nel respingerli. Ma proprio la man­canza di sicurezza attorno all’uni­co organo costituzionale eletto democraticamente ha spinto il suo presidente, Muhammad Ma­garief, a sospendere temporanea­mente i lavori parlamentari. Non ricominceranno fino a quando ai membri del Consiglio non sarà as­sicurata la piena incolumità.
A Bengasi e Derna la situazione è ovviamente ancora più complica­ta: qui milizie islamiste radicali dei salafiti e vere e proprie bande ar­mate si contendono il territorio e spesso agiscono in modo violento, tanto da spingere quasi tutti gli occidentali e le nostre piccole co­munità cristiane alla fuga. Ma quanto viene sempre sottolineato è che buona parte dei salafiti e dei jihadisti non lo è per vera convin­zione ideologica. La stragrande maggioranza li segue per mancan­za di prospettive o di alternative.
La soluzione a questa instabilità non è la repressione (se non per i gruppi più estremi), ma l’offrire delle risposte che «asciughino l’acqua» in cui sguazzano i fomen­tatori dell’estremismo religioso o separatista. Per ora il governo cer­ca di farlo in modo rozzo, distri­buendo soldi a pioggia, in partico­lare verso i combattenti della rivo­luzione (un’etichetta di cui si fre­giano un numero incredibile di li­bici, con grande rabbia di chi la guerra contro Gheddafi l’ha fatta veramente).
Ma una politica di stabilizzazione vera manca ancora, dato che essa si deve basare sul ripristino dei lunghissimi confini che attraver­sano il Sahara e sul nodo del de­centramento del potere e della ric­chezza, oggi troppo concentrati a Tripoli, a svantaggio delle altre re­gioni. Quanto al primo problema, la Libia fa quel che può: pensare di presidiare molte migliaia di chi­lometri di frontiera in un ambien­te desertico è assurdo. Tripoli pun­ta sul sostegno tecnologico e il training occidentale per organiz­zare un controllo mobile ed effica­ce. Il nodo è anche ottenere la col­laborazione dei gruppi tribali del sud che attraverso le frontiere fan­no passare di tutto. In particolare dei tuareg, gli unici a loro agio fra quelle sabbie infuocate. Ogni ac­cordo con loro deve però superare l’ostacolo del passato: Gheddafi, durante la guerra civile, li aveva scagliati come mercenari contro gli insorti; a Misurata i tuareg han­no compiuto crimini – in partico­lare stupri – che la Cirenaica non è disposta a perdonare.
Finora i capi tribali tradizionali hanno aiutato il potere centrale: forti del loro ruolo informale e del loro prestigio sociale, essi hanno lavorato per ridurre le violenze e per offrire una forma di giustizia tradizionale, in assenza di quella ufficiale.

Federalismo o decentramento
Il nodo cruciale tuttavia è quello di ripensare i rapporti di forza e i bilanciamenti fra le varie regioni della Libia. Bengasi e la Cirenaica sostengono giustamente di essere state emarginate e penalizzate per decenni. Ora vogliono un riequili­brio che non è semplice da realiz­zare. La maggior parte della popo­lazione, così come in tutto il Me­dio Oriente, è ostile al termine ’fe­deralismo’, perché sollecita l’idea della frammentazione e della de­bolezza. Nella stessa Bengasi, i fautori di una tale scelta politica sarebbero in diminuzione, a van­taggio di chi vuole realizzare un decentramento politico, finanzia­rio e amministrativo. A parole so­no tutti d’accordo, ma avviare concretamente questo cambia­mento è tutt’altra questione. La legge sul decentramento è ancora ferma in parlamento, mentre an­che l’elaborazione della costitu­zione è lungi dall’iniziare. Dal punto di vista concreto, si tratta poi di costruire dal nulla uffici, strutture pubbliche, infrastrutture, formare nuovi quadri amministra­tivi per spostare ministeri. Creare ospedali e convincere parte dei medici di Tripoli a spostarsi in Ci­renaica, per citare una delle ri­chieste più pressanti.
Oggi, un terzo dei sei milioni e passa di libici vive nella capitale. E pochissimi sembrano disposti a rinunciare al suo traffico per ritor­nare nelle zone d’origine. Ove manca tutto. L’aspetto positivo è che tutti, a Tripoli, sono concordi nel ritenere che, costi quel che co­sti, un riequilibrio fra le varie re­gioni deve essere attuato. L’idea che sembra prevalere è quella di ricostituire le province, che erano state abolite da Gheddafi. Oltre­tutto, le 11 o 16 province di cui si prova a disegnare i confini sareb­bero molto meno invasive della soluzione regionale, con la divisio­ne del paese in tre regioni – Tripo­litania, Cirenaica e Fezzan – di cui molti temono la spinta centrifuga.

La prospettiva islamista
Sullo sfondo, la questione dei mo­vimenti e dei partiti islamisti. Il Partito di Giustizia e Costruzione, legato ai Fratelli Musulmani, è an­dato maluccio alle elezioni, sopra­vanzato dai liberali del Fronte na­zionale. Ancora peggio i movi­menti salafiti radicali, quasi esclu­si dal parlamento provvisorio, an­che se possono contare sulla vici­nanza di svariati deputati indi­pendenti (che rappresentano la maggioranza). Paradossalmente, anche l’uniformità religiosa del paese non gioca al loro favore. I li­bici sono quasi totalmente musul­mani sunniti di rito malakita. Le uniche diversità sono gli ibaditi e i sufi, contro i quali vi sono state violenze e minacce da parte dei salafiti. Mancano in Libia le ten­sioni con gli sciiti che hanno ca­ratterizzato l’Iraq, o la presenza di grandi minoranze cristiane come in Egitto e Libano. La fede islami­ca è sentita e condivisa. Ma non necessariamente si trasforma in impegno politico diretto, se non per manifestare disagio o frustra­zione, come avviene spesso a Ben­gasi. Di fronte a questa situazione, i Fratelli Musulmani sembrano a­ver momentaneamente rinuncia­to a piegare il governo, scegliendo al contrario un’altra tattica: da una parte stanno cercando di impedi­re il varo di alcune leggi richieste a gran voce dalla popolazione, pri­ma fra tutte quella che dovrebbe regolare l’esclusione dalla vita pubblica di chi si è compromesso con il passato regime. In questo caso, la fratellanza ha spinto per un testo così duro da essere inap­plicabile: un’empasse che permet­te di accusare i liberali di essere le­gati ai gheddafiani. Ma il loro inte­resse massimo sembra essere quello di condizionare l’elabora­zione della costituzione, facendo della sha­ri’a il perno fondante e creando un comitato con il pote­re di vaglia­re la conformità di tutte le leggi ai precetti religiosi. Un’idea ritenuta pericolosa dai liberali, i quali vo­gliono semplicemente un richia­mo alla shari’a quale legge ispira­trice della costituzione. Una par­tita che si giocherà sul filo delle parole con le quali si scriveranno gli articoli costituzionali e che ri­schia di essere una riedizione dei contrasti avvenuti in Egitto, ove i Fratelli Musulmani al potere han­no imposto un testo dogmatico e settario.
La miglior risposta a questa loro tattica è evitare che le rivalità e le divisioni fra i movimenti laici e li­berali finisca per avvantaggiarli – come è successo in Tunisia o in E­gitto – e al tempo stesso avviare la ricostruzione del sistema ammini­­strativo e politico libico, iniziando a dare quelle risposte che le varie regioni stanno aspettando dalla caduta del colonnello. Da parte europea, occorre rafforzare la no­stra azione a sostegno della stabi­lizzazione e della deradicalizza­zione del quadro politico libico.
Che significa non pensare solo al petrolio e ai contratti per le azien­de – per quanto utili e importanti – ma rilanciare una politica co­munitaria verso tutta la sponda sud del Mediterraneo. Senza ti­more di difendere i valori che ci distinguono.