Riccardo Redaelli, Avvenire 4/4/2013, 4 aprile 2013
E DOPO GHEDDAFI NON CI FU IL DILUVIO
Qualcuno ha detto che la Libia è come quei bambini che stanno imparando a camminare: il passo è incerto e non sai mai quando possano cadere. Eppure, a dispetto degli ondeggiamenti, continuano ad andare avanti. In effetti – per quanto siano evidenti tutti i problemi e le difficoltà – il fragile sistema politico nato con la caduta di Gheddafi nel 2011 ha saputo finora resistere alle spinte centrifughe e alle proprie contraddizioni.
Ma affidarsi alla buona sorte non è mai una politica saggia: è tempo che Tripoli fornisca risposte alle richieste sempre più pressanti di stabilizzazione e riorganizzazione interna.
Una celebrazione pacifica
A metà febbraio, ad esempio, per le celebrazioni del secondo anno dell’inizio della rivoluzione contro Gheddafi si temeva il peggio. Tanto che diverse compagnie aeree avevano sospeso i voli per Tripoli e qualche Paese aveva consigliato ai propri cittadini di abbandonare la Libia. Lo stesso governo, per timore di scontri sanguinosi e di violenze aveva ridotto al minimo i festeggiamenti. Non è successo nulla, invece. Le celebrazioni ci sono state ugualmente, spesso organizzate spontaneamente dai cittadini o dalle tribù: con una partecipazione popolare incredibile, fuochi d’artificio, comizi, musica, bandiere. Per tutto il mese di febbraio, alla sera, nella grande piazza dinanzi il palazzo degli ottomani, ove il colonnello era solito lanciare i suoi proclami, una folla variopinta si ritrovava per festeggiare: giovani che lanciavano fuochi d’artificio, reduci della rivoluzione con un caleidoscopio di divise dai colori e dalle forme diverse, islamisti barbuti che celebravano la vittoria o ascoltavano il comizio di un loro ulema, famiglie con bambini, ragazze. Ma sempre senza incidenti o spargimenti di sangue. Una dimostrazione di maturità e di sostegno al nuovo sistema politico che ha sorpreso molti, dentro e fuori la Libia, ma che non può nascondere le difficoltà nel gestire le troppe milizie e le troppe armi circolanti nel Paese.
La questione sicurezza
Quando si parla dei problemi della Libia, la risposta è infatti quasi univoca, sia che venga da politici, amministratori, esponenti della società civile, giornalisti: il nodo fondamentale è la sicurezza. Non che le cose vadano malissimo, anzi: la Tripolitania è più stabile di quanto si pensasse e in fondo anche in Cirenaica ci sono alcuni indicatori positivi. Ma il fatto è che il governo rimane fragilissimo in questo campo: dovessero riesplodere le violenze, le gracili forze di sicurezza nazionali rischierebbero di sfilacciarsi nuovamente, dato che il loro nucleo è formato da milizie ’riverniciate’ da esercito nazionale. Dopo aver subito decenni di tirannia, ora il potere è estremamente restio a usare la forza: ad esempio, il parlamento di Tripoli (Consiglio generale nazionale) viene periodicamente occupato dagli ex-combattenti (o presunti tali), che invocano cure all’estero e finanziamenti. L’ordine è sempre stato quello di non fermarli con le armi, ma di farli entrare. Solo nell’ultimo mese si è iniziato a mostrare più determinazione nel respingerli. Ma proprio la mancanza di sicurezza attorno all’unico organo costituzionale eletto democraticamente ha spinto il suo presidente, Muhammad Magarief, a sospendere temporaneamente i lavori parlamentari. Non ricominceranno fino a quando ai membri del Consiglio non sarà assicurata la piena incolumità.
A Bengasi e Derna la situazione è ovviamente ancora più complicata: qui milizie islamiste radicali dei salafiti e vere e proprie bande armate si contendono il territorio e spesso agiscono in modo violento, tanto da spingere quasi tutti gli occidentali e le nostre piccole comunità cristiane alla fuga. Ma quanto viene sempre sottolineato è che buona parte dei salafiti e dei jihadisti non lo è per vera convinzione ideologica. La stragrande maggioranza li segue per mancanza di prospettive o di alternative.
La soluzione a questa instabilità non è la repressione (se non per i gruppi più estremi), ma l’offrire delle risposte che «asciughino l’acqua» in cui sguazzano i fomentatori dell’estremismo religioso o separatista. Per ora il governo cerca di farlo in modo rozzo, distribuendo soldi a pioggia, in particolare verso i combattenti della rivoluzione (un’etichetta di cui si fregiano un numero incredibile di libici, con grande rabbia di chi la guerra contro Gheddafi l’ha fatta veramente).
Ma una politica di stabilizzazione vera manca ancora, dato che essa si deve basare sul ripristino dei lunghissimi confini che attraversano il Sahara e sul nodo del decentramento del potere e della ricchezza, oggi troppo concentrati a Tripoli, a svantaggio delle altre regioni. Quanto al primo problema, la Libia fa quel che può: pensare di presidiare molte migliaia di chilometri di frontiera in un ambiente desertico è assurdo. Tripoli punta sul sostegno tecnologico e il training occidentale per organizzare un controllo mobile ed efficace. Il nodo è anche ottenere la collaborazione dei gruppi tribali del sud che attraverso le frontiere fanno passare di tutto. In particolare dei tuareg, gli unici a loro agio fra quelle sabbie infuocate. Ogni accordo con loro deve però superare l’ostacolo del passato: Gheddafi, durante la guerra civile, li aveva scagliati come mercenari contro gli insorti; a Misurata i tuareg hanno compiuto crimini – in particolare stupri – che la Cirenaica non è disposta a perdonare.
Finora i capi tribali tradizionali hanno aiutato il potere centrale: forti del loro ruolo informale e del loro prestigio sociale, essi hanno lavorato per ridurre le violenze e per offrire una forma di giustizia tradizionale, in assenza di quella ufficiale.
Federalismo o decentramento
Il nodo cruciale tuttavia è quello di ripensare i rapporti di forza e i bilanciamenti fra le varie regioni della Libia. Bengasi e la Cirenaica sostengono giustamente di essere state emarginate e penalizzate per decenni. Ora vogliono un riequilibrio che non è semplice da realizzare. La maggior parte della popolazione, così come in tutto il Medio Oriente, è ostile al termine ’federalismo’, perché sollecita l’idea della frammentazione e della debolezza. Nella stessa Bengasi, i fautori di una tale scelta politica sarebbero in diminuzione, a vantaggio di chi vuole realizzare un decentramento politico, finanziario e amministrativo. A parole sono tutti d’accordo, ma avviare concretamente questo cambiamento è tutt’altra questione. La legge sul decentramento è ancora ferma in parlamento, mentre anche l’elaborazione della costituzione è lungi dall’iniziare. Dal punto di vista concreto, si tratta poi di costruire dal nulla uffici, strutture pubbliche, infrastrutture, formare nuovi quadri amministrativi per spostare ministeri. Creare ospedali e convincere parte dei medici di Tripoli a spostarsi in Cirenaica, per citare una delle richieste più pressanti.
Oggi, un terzo dei sei milioni e passa di libici vive nella capitale. E pochissimi sembrano disposti a rinunciare al suo traffico per ritornare nelle zone d’origine. Ove manca tutto. L’aspetto positivo è che tutti, a Tripoli, sono concordi nel ritenere che, costi quel che costi, un riequilibrio fra le varie regioni deve essere attuato. L’idea che sembra prevalere è quella di ricostituire le province, che erano state abolite da Gheddafi. Oltretutto, le 11 o 16 province di cui si prova a disegnare i confini sarebbero molto meno invasive della soluzione regionale, con la divisione del paese in tre regioni – Tripolitania, Cirenaica e Fezzan – di cui molti temono la spinta centrifuga.
La prospettiva islamista
Sullo sfondo, la questione dei movimenti e dei partiti islamisti. Il Partito di Giustizia e Costruzione, legato ai Fratelli Musulmani, è andato maluccio alle elezioni, sopravanzato dai liberali del Fronte nazionale. Ancora peggio i movimenti salafiti radicali, quasi esclusi dal parlamento provvisorio, anche se possono contare sulla vicinanza di svariati deputati indipendenti (che rappresentano la maggioranza). Paradossalmente, anche l’uniformità religiosa del paese non gioca al loro favore. I libici sono quasi totalmente musulmani sunniti di rito malakita. Le uniche diversità sono gli ibaditi e i sufi, contro i quali vi sono state violenze e minacce da parte dei salafiti. Mancano in Libia le tensioni con gli sciiti che hanno caratterizzato l’Iraq, o la presenza di grandi minoranze cristiane come in Egitto e Libano. La fede islamica è sentita e condivisa. Ma non necessariamente si trasforma in impegno politico diretto, se non per manifestare disagio o frustrazione, come avviene spesso a Bengasi. Di fronte a questa situazione, i Fratelli Musulmani sembrano aver momentaneamente rinunciato a piegare il governo, scegliendo al contrario un’altra tattica: da una parte stanno cercando di impedire il varo di alcune leggi richieste a gran voce dalla popolazione, prima fra tutte quella che dovrebbe regolare l’esclusione dalla vita pubblica di chi si è compromesso con il passato regime. In questo caso, la fratellanza ha spinto per un testo così duro da essere inapplicabile: un’empasse che permette di accusare i liberali di essere legati ai gheddafiani. Ma il loro interesse massimo sembra essere quello di condizionare l’elaborazione della costituzione, facendo della shari’a il perno fondante e creando un comitato con il potere di vagliare la conformità di tutte le leggi ai precetti religiosi. Un’idea ritenuta pericolosa dai liberali, i quali vogliono semplicemente un richiamo alla shari’a quale legge ispiratrice della costituzione. Una partita che si giocherà sul filo delle parole con le quali si scriveranno gli articoli costituzionali e che rischia di essere una riedizione dei contrasti avvenuti in Egitto, ove i Fratelli Musulmani al potere hanno imposto un testo dogmatico e settario.
La miglior risposta a questa loro tattica è evitare che le rivalità e le divisioni fra i movimenti laici e liberali finisca per avvantaggiarli – come è successo in Tunisia o in Egitto – e al tempo stesso avviare la ricostruzione del sistema amministrativo e politico libico, iniziando a dare quelle risposte che le varie regioni stanno aspettando dalla caduta del colonnello. Da parte europea, occorre rafforzare la nostra azione a sostegno della stabilizzazione e della deradicalizzazione del quadro politico libico.
Che significa non pensare solo al petrolio e ai contratti per le aziende – per quanto utili e importanti – ma rilanciare una politica comunitaria verso tutta la sponda sud del Mediterraneo. Senza timore di difendere i valori che ci distinguono.