Giuseppe Montesano, la Repubblica 3/4/2013, 3 aprile 2013
VERLAINE INEDITO
Che siano state le dispute politiche a separare gli amanti e poeti Paul Verlaine e Arthur Rimbaud? Verlaine chiamava l’adorato Rimbaud il suo “micetto biondo”, gli scriveva cose come: «ancora indegno striscio verso di te, montami sopra e calpestami…», si era fatto trafiggere il polso con un coltello da Arthur, aveva scritto con lui poesie oscene irriferibili, e, per mantenere il ragazzo dagli occhi azzurri che si rifiutava categoricamente di lavorare, il lussurioso Paul aveva costretto sua madre a dissipare in pochi anni qualcosa come settantamila euro di oggi: un amore così poteva finire per delle noiose discussioni sul suffragio universale e la Rivoluzione francese? Impossibile.
Ma a leggere Viaggio in Francia di un francese, un libro di Verlaine inedito in Italia, curato magnificamente da Giancarlo Pontiggia e pubblicato da Medusa, si direbbe proprio di sì: il soprannome di “Loyola” che Rimbaud dette a Verlaine non era affatto un gioco. In queste pagine accese e ritmate Verlaine sostiene che la decadenza della Francia è dovuta alla fine del potere dei Gesuiti; sostiene che la Rivoluzione del 1789 è la massima sciagura del Paese; sostiene che i comunardi sono pazzi; e predica non solo il “ritorno” alle radici cristiane, ma proprio alla monarchia cattolica e legittimista. Figurarsi che discussioni tra i due innamorati! Paul e Arthur, per la noia, facevano un gioco: coprivano due coltelli con degli asciugamani bagnati lasciandone scoperte le punte, e poi si colpivano finché non usciva sangue, proprio come amanti sadomaso in anticipo sui tempi. Dopo, naturalmente, finivano a letto, e, con la regolarità di un orologio, Verlaine era afferrato dal pentimento. Rimbaud gli gridava allora che era solo un gesuita infame e ipocrita, Verlaine gli chiedeva di convertirsi alla fede degli avi e di Giovanna D’Arco, Rimbaud gli rispondeva con qualche atroce bestemmia, Verlaine lo accusava di essere un comunardo incendiario e un amico del suffragio universale, e alla fine i due, tra ingiurie e sbattere di porte, colpi di coltello e qualche colpo di pistola, ritornavano a sacrificare al dio Eros, a Parigi, a Bruxelles, a Londra e dovunque li portava il loro tentativo di trovare un luogo adatto ai loro sogni di poeti.
Una convivenza per niente facile, tra il ragazzo che voleva il massacro dei borghesi ricchi nella Comune e aveva elogiato i rivoltosi dell’89 per aver ucciso il Re e il Verlaine che sosteneva che la democrazia è il male assoluto della modernità e che si deve ritornare alla santità del passato. Senza qualche piccola ipocrisia come andare d’accordo con il ragazzo dagli occhi blu che la Francia ultracattolica sognata da Verlaine-Loyola la detestava al punto da andarsene tra gli arabi a vendere armi e a leggere il Corano? Verlaine scrisse il Viaggio in Francia solo quando Rimbaud partì per l’Africa, e probabilmente ci mise tutta la rabbia del deluso e del tradito, e tutto quello che da “Loyola” innamorato aveva in parte dovuto dissimulare per farsi accettare dal suo micio biondo e anarchico. Ma il manoscritto delle confessioni politiche di Verlaine restò tale, persino una rivista cattolica lo rifiutò, e il libro fu pubblicato dopo la morte di Verlaine: peccato, perché la prosa risentita e anomala di Verlaine, il suo furore dolce e la sua frivolezza retorica sono affascinanti. Del resto allora tutti sapevano che Verlaine, che scriveva poesie cristianissime e panegirici della Vergine, era però sempre l’uomo che conviveva con prostitute e ragazzi, e che pochi anni prima aveva sbattuto il figlio nato da poco con la testa sul muro e tentato di strangolare sua moglie perché si rifiutava di dargli i soldi da sperperare con Arthur.
Verlaine era questo, una contraddizione vivente e un cuore tortuoso, e a tratti un poeta che cantava come nessuno aveva cantato prima la vita “semplice e tranquilla” che è vicinissima ma che sempre sfugge, la leggerezza ebbra degli amanti vagabondi in fuga dal mondo, i trasalimenti magici e impercettibili della natura: «Nell’erba nera i Kobolds vanno; il vento profondo piange, si direbbe… ». E il suo inimitabile tono, come il brivido vocale di una Callas erotica, ci arriva al di là della sua catastrofe personale: e trafigge con dolcezza, ancora.