Donato Carrisi, Vanity Fair 3/4/2013, 3 aprile 2013
IL GIALLO DI PERUGIA
Esiste un’estetica del male. Con i suoi rituali, un proprio galateo e persino una mondanità. Detta precise ma imperscrutabili regole di stile per cui una stagione va di moda un certo tipo di crimine e quella dopo un altro. Sono i suoi canoni a decidere quale sia il fatto di sangue che si imporrà all’attenzione di tutti, scatenando ridde e dibattiti, intrattenendo orde di benpensanti, più o meno competenti. La prova di tutto questo è che in Italia c’è almeno un omicidio al giorno, ma solo alcuni assurgono all’onore della passerella. È il prêt-à-porter dei mostri, gente! Nel glamour della morte non è mai la verità a trionfare, bensì solo l’apparenza. Non ci credete?
È la mattina del 2 novembre del 2007, la polizia sfonda la porta di una camera da letto di una casa abitata da studentesse. In realtà, gli agenti non sanno nemmeno cosa stanno cercando. Ma nel disordine della stanza, notano un piede umano: spunta da sotto un piumone usato per coprire un giovane cadavere con una ferita alla gola.
Il caso si presenta già dal titolo come un sicuro successo internazionale: Il giallo di Perugia. Lo scenario è la quieta provincia italiana, quella in cui, è universalmente noto, adora villeggiare indisturbato il diavolo. Il cast, però, è internazionale.
Si parte dalla vittima: Meredith Kercher, cittadina britannica. Chiamata Mez da chi le voleva bene e, dopo l’omicidio, anche da chi ha adottato non lei ma la sua morte. Come accade spesso in questi casi, è più facile affezionarsi a un cadavere che a una persona ancora in vita. La morte ha questo di positivo, ci fa entrare tutti di diritto nella schiera dei simpatici. Mentre gli antipatici di questa storia si chiamano Amanda Knox e Raffaele Sollecito: i fidanzatini malvagi. Lei è americana e condivide casa con la vittima, lui è pugliese ed è innamoratissimo. Si trovano a Perugia per ragioni di studio, proprio come Mez. Non solo sono belli e invidiabili quei due, hanno addirittura facce d’angelo – nel patinato mondo del crimine mediatico è un requisito fisico imperdonabile almeno quanto la bruttezza.
Le prime immagini che ritraggono Amanda e Raffaele vengono catturate all’esterno del luogo del delitto. Mentre gli investigatori si affannano a dare un senso alla fine atroce e precoce di una ventiduenne, i due si scambiano effusioni. Una stupida mancanza di buon gusto che si ritorcerà contro di loro ripagandoli con la stessa spietatezza da parte dell’opinione pubblica. Ma non sarà l’unica leggerezza che sconteranno.
Raffaele ha l’abitudine di portare sempre con sé un coltello. Ovvio che quando gli inquirenti glielo trovano addosso, anche se non si tratta dell’arma del delitto, si convincano che la singolare passione per le lame faccia del ragazzo un colpevole perfetto in fondo, come dargli torto.
Gli investigatori non si accontentano di lui, vogliono incastrare pure Amanda. E la ragazza è acclamata a gran voce anche dal pubblico. Non sanno che farsene di Raffaele, troppo impersonale. Per lui hanno in mente il ruolo di succube della seduzione dell’avvenente americana – una sorta di maleficio che mescola sangue e lussuria.
Ma tutti capiscono subito che l’unico modo per coinvolgere la giovane strega è fare di lei la principale attrice sulla scena del crimine. È lei, signori della corte, che impugnava il coltello da cucina con cui veniva inferta la ferita mortale! Ed è sempre lei che, per allontanare i sospetti da sé, accuserà il povero Patrick Lumumba, titolare del pub in cui la stessa lavorava come cameriera. La Knox ci dirà poi che sono stati i poliziotti a costringerla con pressioni di vario tipo a tirare in ballo l’uomo di colore che per fortuna sarà scagionato. Ma la bella Amanda rimedierà comunque una condanna per calunnia.
Col passare dei mesi, la posizione dei due fidanzatini diabolici si aggrava. Il processo di primo grado è un vero show. Amanda esibisce una T-shirt con la scritta All you need is love e i media italiani, spalleggiati da quelli britannici, gridano alla scandalosa provocazione. Ma, soprattutto, la Knox non indossa mai la maschera del pentimento – ed è del tutto ininfluente per chiunque che non lo faccia solo perché si dichiara innocente.
Contro l’unanime sentenza che anticipa ogni condanna giudiziaria, monta l’opinione pubblica americana aizzata dai propri mass media. Amanda Knox viene difesa a prescindere, è una questione di orgoglio nazionale! Persino il segretario di stato Hillary Clinton interviene sulla vicenda, in modo blando ma del tutto irrituale.
Schiere di investigatori, di giornalisti specializzati e di autori di thriller tuonano dall’altra parte dell’oceano contro la giustizia italiana e i suoi metodi d’indagine. Viene sottolineata la sciatteria delle procedure seguite per accusare la loro ragazza. Il popolo che ha inventato CSI non ci sta ad accettare tanta approssimazione.
Lo scontro allora diventa culturale. I britannici accusano la ragazza americana e minacciano gli italiani nel caso pensassero anche minimamente di assolverla. Gli americani se la prendono soprattutto con noi, non perdendo occasione di sottolineare la nostra scarsa consuetudine con la giustizia. Noi italiani vogliamo a tutti i costi la testa di Amanda Knox per dimostrare che, in fondo, siamo meglio degli americani e per ottenerla non ci curiamo di sacrificare anche quella dell’italianissimo Sollecito, senza neanche avvertire il senso del paradosso. Dal canto loro, i magistrati di Perugia, fra primo e secondo grado e ricorso in Cassazione, si scontrano in maniera veemente smentendosi reciprocamente senza risparmiarsi colpi durissimi.
Allora, che ne dite? La vicenda merita o no lo status di giallo? In fondo, ci hanno già scritto su undici libri – che presto aumenteranno – e le hanno dedicato anche un film a Hollywood.
Ma se leggendo il mio racconto avete pensato che cercassi di far prevalere una posizione a discapito di un’altra, o che sostenessi la colpevolezza – o non sia mai – l’innocenza di qualcuno, vi sbagliate. Mi sono servito di un espediente narrativo, un abile trucchetto di cui noi scrittori di thriller a volte ci serviamo per rendere le nostre storie accattivanti. Omettiamo dall’esposizione dei fatti un semplice segno d’interpunzione: il punto interrogativo. Senza di esso, ogni verità può essere distorta a piacimento, provocando il consenso o l’irritazione del lettore.
Non mi credete? Allora proviamo a inserire qualche punto di domanda e vediamo che succede...
Quanti ricordano che per l’omicidio di Meredith esiste già un colpevole accertato e condannato in un autonomo processo di nome Rudy Hermann Guede? Lo sanno, per esempio, i britannici che ci accusano di non aver saputo offrire giustizia a Mez? Perché nei confronti di Guede gli italiani non si sono mai scagliati con la stessa veemenza riservata invece ad Amanda e Raffaele? Il motivo dell’indifferenza forse dipende dal fatto che si tratta di un nero, in una specie di razzismo all’incontrario per cui un colpevole di colore è troppo scontato e per questo meno adatto a interpretare il giallo che ha, soprattutto, il dovere di intrattenerci? Quanti di noi, oltre ai personaggi della vicenda, conoscono anche le modalità con cui si è consumato l’omicidio di Mez? Quanti sanno che secondo i giudici di primo grado che hanno condannato Amanda e Raffaele, la notte fatidica ci fu una violenza sessuale spinta da non si sa quale istinto malefico fino all’assassinio? Perché nessuno ci chiarisce cosa sia la «scelta di male estremo» che secondo quella stessa sentenza avrebbe indotto Amanda e Raffaele ad affiancare Rudy in un perverso gioco erotico culminante con la morte? Dov’è la prova inoppugnabile di tale movente? Perché negli Stati Uniti non si parla dell’accusa infamante che Amanda ha rivolto al povero Patrick Lumumba? Perché credere al suo pianto di innocente quando lei non si è fatta scrupolo di puntare l’indice contro chi non c’entrava a nulla? Perché, anche se probabilmente rimarrà sempre un dubbio circa un suo coinvolgimento nell’omicidio di Mez, i connazionali di Amanda Knox non si chiedono se sia davvero opportuno regalarle il ruolo dell’eroina positiva? Perché la nostra giustizia, nata nella culla del diritto della civiltà romana, si presta a subire critiche da Paesi che hanno nel loro ordinamento giuridico una cosa orrenda come la pena di morte? Perché offrire al mondo lo spettacolo indecente delle lungaggini giudiziarie quando in ballo non c’è soltanto una morte troppo giovane ma altresì delle giovani vite? Cosa accadrà se la nuova corte d’Assise che dovrà pronunciarsi su Amanda e Raffaele li condannerà per l’omicidio di Mez? Gli Stati Uniti ci riconsegneranno la ragazza per farle scontare la pena, così come prevedono gli accordi internazionali, o dovremo prendere in ostaggio il loro ambasciatore (sigh!) come hanno fatto gli indiani per il caso dei marò? Perché Rudy Guede non dice ancora tutta la verità su come sono andati i fatti? Perché Raffaele Sollecito non spiega una volta per tutte che bisogno avesse di portarsi appresso un coltello? Perché Amanda e Raffaele non chiedono scusa alla famiglia di Meredith per essersi scambiati effusioni a pochi metri da dove giaceva il cadavere della ragazza?
Ma soprattutto, la domanda che probabilmente resterà senza risposta: cosa è accaduto veramente in una casa di studentesse a Perugia la notte fra l’1 e il 2 novembre del 2007?
* Donato Corrisi, 40 anni, è l’autore italiano di thriller più venduto al mondo. Il 29 aprile esce il suo nuovo romanzo, L’ipotesi del male (Longanesi).