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 2013  aprile 03 Mercoledì calendario

COSI’ MONTALE RACCONTAVA IL KOLOSSAL DI VERDI: «SPETTACOLO VISIVO E MUSICALE TRABOCCANTE DI GENIO»

Nata per un avvenimento che attirava l’attenzione del mondo intero, l’Aida fu sempre giustamente considerata l’opera più spettacolare di Verdi. E i suoi trionfi non si celebrarono solo nei grandi teatri, dove se n’ebbero esecuzioni oggi inimitabili, ma anche in piazze, arene e giardini pubblici. Si ebbero così due possibili Aide: quella al chiuso e quella all’aperto. Le prime sottolineavano i valori musicali, le seconde anticipavano, magari con economia di mezzi, effetti da cinemascope, scaglionando le «masse» in lunghe prospettive di archi e di colonne e sacrificando la musica agli effetti visivi. In tutti i casi si puntò sempre sulla grandiosità, anche quando i sacerdoti portavano barbe di cartapesta e indossavano accappatoi da spiaggia.
Grandiosa, traboccante di genio com’è la musica di Aida, è certo che dell’opera non può immaginarsi un’esecuzione che non dia appagamento agli occhi. E poiché gli occhi son più volubili degli orecchi ed ogni costume o acconciamento di ieri sembra ridicolo finché non «fa data» e non diventa documento, è ovvio che l’Aida meno di ogni altra opera di repertorio potrà sfuggire alle intenzioni novatrici di scenografi, registi e coreografi.
Possiamo perciò comprendere la necessità in cui s’è trovata la direzione della Scala — una volta che fu scelta l’Aida per inaugurare la presente stagione — di rinnovarne totalmente l’allestimento, affidata per la parte orchestrale a un maestro come Antonino Votto che dà piene garanzie di mantenersi sul solido terreno della tradizione, scelti i cantanti migliori che oggi possa offrire il mercato, lo scenografo Piero Zuffi, il regista Franco Enriquez e la coreografa Luciana Novaro ebbero l’incarico di montare e far funzionare la macchina dello spettacolo. Impresa non facile se si pensa che nemmeno raddoppiando la loro giovane età, Zuffi ed Enriquez potrebbero ricordare le grandi esecuzioni tradizionali di quest’opera; esecuzioni che forse desterebbero la loro ilarità se fossero ripetute, ma che in ogni modo hanno creato la fama dell’Aida e non sono ancora spente nel ricordo dei vecchi frequentatori della Scala. Quali risultati hanno ottenuto i piloti del nuovo spettacolo? A nostro avviso molto lodevoli, se si tien conto che lo scenografo dovette lavorare a tempi accelerati e che il regista affrontava un’opera per lui nuova.
Dopo molte Aide in cui imperava il cartone e il gusto Art Nouveau nella sua accezione più scadente (quella del ballo Excelsior) i bozzetti di Zuffi, monumentali ma semplici, sobriamente stilizzati ma non ridotti al nudo schematismo e mantenuti anche in una certa moderazione cromatica, hanno creato l’ambiente più adatto a una musica che, almeno nel caso di Aida, è già così monumentale per conto suo da non sopportare una collaborazione troppo soverchiante.
Dal Flauto magico in poi esiste un Egitto di religione sincretistica e massonica che si è espresso in sigle, svastiche, chiavi inglesi e motivi grafici d’ogni genere; esiste anche un’architettura di gusto neo-egiziano, un’architettura da terme ed esposizioni che coincide anche con la data di nascita dell’Aida.
I sonetti di Gérard de Nerval, sono il maggior concentrato poetico di questo stile in cui confluiscono tanto il preraffaellismo che l’ottimismo ancor illuministico del secondo Ottocento. Non so quante ricerche in questo senso abbiano fatte Giusti ed Enriquez, ma è certo che col vario aiuto della coreografia molte scene di questa Aida si sono svolte con vera coerenza di stile, in un racconto bene incatenato. Ciò è stato soprattutto evidente nel secondo atto e in quelle danze nelle quali i moretti si sono presentati senza lo scatto della boite à surprise; e nella scena del tempio dove regia e coreografia si sono date la mano per creare un suggestivo ambiente da cerimonia iniziatica.
La vastità del palcoscenico e la necessità di interrompere l’azione con i cambiamenti di scena hanno permesso di collocare nella stratosfera l’ultimo confronto fra Amneris e Radamès: con un effetto non del tutto convincente, sebbene la Simionato abbia trovato i suoi atteggiamenti migliori. Ma troppa distanza corre tra le voci e l’orchestra. Resta da dire dei costumi, ricchi e vari; e che ad alcuni sono sembrati troppo diseguali e magari anacronistici. Ma si può riportare a un calendario l’Egitto dell’Aida? Certo alcuni costumi e strascichi e pennacchi e flabelli potevano corrispondere alla stagione delle voci eroiche oggi scomparse. Ma ormai un’Amneris che non abbia regalità di voce può presentarsi quasi in tailleur e non in peplo.
E ora due parole sugli interpreti principali, che stavolta abbiamo sacrificato agli artefici dello spettacolo visivo. E qui dobbiamo ripetere che la Scala ha fatto probabilmente il possibile anche se non ha potuto inventare le grandi voci verdiane che pur sarebbero necessarie. Domina il cast (mi scuso della parola ma ormai è entrata nell’uso) Giulietta Simionato, la quale pur non avendo né il colore vocale né la potenza di declamazione che sarebbero convenienti al regale personaggio di Amneris è pur sempre un miracolo di quadratura, d’intonazione e di chiara, perfetta musicalità. Aida è Antonietta Stella, giovane ma già addestratissima a questa parte. Ha mezzi vocali molto ricchi ed estesi e tende a strafare con pericolo dell’intonazione. Forse non ha raggiunto ancora quel quid quasi imponderabile che si chiama personalità, ma non direi che l’Aida esaurisca le possibilità di quest’artista che in altre opere ci è parsa anche più interessante.
Radamès è l’acclamatissimo Giuseppe Di Stefano che va trasformandosi con dubbia fortuna da tenore lirico in tenore drammatico. Dotato di splendida voce, ma abituato ormai a spampanare paurosamente quelle note medio-alte che i vecchi cantanti portavano «in maschera» è costretto poi nelle note acutissime della gamma a un violento sforzo e a una intonazione fluttuante. Il Pubblico però non mostra di aversene a male ed evidentemente il torto è tutto nostro. Ultraverdiana potrebbe essere la rombante voce del baritono Gian Giacomo Guelfi, a cui mancano tuttavia i toni medi. Nel terzo atto fa pensare piuttosto a un ubriaco Varlaam che a un etiopico roi en exile. Perfettamente a posto i due bassi, Zaccaria e Maionica ed eccezionale nella particina del messaggero il tenore Zampieri.
Di prim’ordine Vera Colombo e il corpo danzante istruito da Luciana Novaro e ottimo il coro diretto da Norberto Mola. L’orchestra condotta da Antonino Votto con mano esperta ha suonato con morbida e potente sicurezza senza soffocare troppo le voci. Il pubblico, imponente, ha rivolto calorose feste a tutti gli interpreti seguendo con curiosità le numerose trouvailles dei realizzatori scenici. Su questo punto, naturalmente, le opinioni erano divise e noi stessi non sappiamo che effetto ci farebbe il nuovo allestimento se non conoscessimo a memoria lo spartito e non potessimo inserire lo spettacolo d’oggi nel quadro delle molte Aide già da noi ascoltate.
Quel ch’è certo è che la Scala, senza essere un teatro sperimentale, non può negarsi a certe esperienze e l’Aida di ieri è degna di essere vista e ascoltata.
Eugenio Montale
* Corriere d’Informazione sabato-domenica 8-9 dicembre 1956