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 2013  aprile 03 Mercoledì calendario

CRISI ITALIANE: IL CASO DEI MARÒ E QUELLO DELLA NAVE ACHILLE LAURO

Il governo Monti e la vicenda dei marò: meglio Craxi nella crisi di Sigonella con gli Usa. Rispetto al dilettantismo dimostrato dall’esecutivo «tecnico», nella gestione dei rapporti con l’India, non si può non sottolineare la fermezza e la dignità che dimostrò negli anni 80 il governo di Bettino Craxi. Il premier socialista mantenne i nervi saldi e la schiena dritta, nel tesissimo colloquio telefonico con il presidente degli Stati Uniti. Ronald Reagan intendeva far arrestare dai marines, nella base di Sigonella, i terroristi palestinesi responsabili del sequestro della nave «Achille Lauro» e dell’assassinio, a sangue freddo, di un passeggero americano, l’ebreo Leon Klinghoffer.
Pietro Mancini
pietromancini.pm@libero.it
Caro Mancini, credo che nella vicenda del dirottamento dell’Achille Lauro e del duro braccio di ferro con gli Stati Uniti sulla pista dell’aeroporto di Sigonella, Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, abbia agito bene e con fermezza. Ma non sarebbe giusto dimenticare che le carte nelle sue mani erano molto più numerose di quelle nelle mani di Mario Monti e dei suoi ministri durante la crisi dei marò. Sia la nave attaccata dai terroristi, sia la base di Sigonella erano territorio italiano. Ecco, per grandi linee, un breve riepilogo di quegli avvenimenti.
Quando l’Achille Lauro fu dirottata da una commando palestinese al largo di Alessandria l’8 ottobre 1985, Craxi ritenne che il miglior modo per tutelare la sicurezza dei passeggeri fosse il negoziato. Prese contatto con Yasser Arafat, leader dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e ottenne l’invio di un negoziatore nella persona di Mohammed Abbas, meglio noto nel mondo della cospirazione con il nome di Abu Abbas. Il mediatore, per la verità, era anche capo del commando e, quindi, responsabile dell’operazione, ma l’accordo fu raggiunto: la nave sarebbe stata liberata e i maggiori membri dell’operazione, insieme ad Abu Abbas, sarebbero stati trasportati a Tunisi da un aereo delle linee egiziane.
I falchi di Washington, tuttavia, avevano altri progetti. Il colonnello Oliver North, funzionario del Consiglio americano per la sicurezza nazionale, propose dapprima l’abbattimento dell’aereo, poi il suo dirottamento verso l’aeroporto di Sigonella dove i marines si sarebbero impadroniti dei passeggeri e li avrebbero trasportati negli Stati Uniti. Craxi, come è noto, ordinò ai carabinieri di impedirlo. Aveva sottoscritto l’impegno e intendeva onorarlo. Fu questa la ragione per cui qualche giorno dopo Abu Abbas poté lasciare l’Italia e raggiungere Belgrado.
Una spregiudicata operazione politica? Una prova d’indifferenza per la tragica morte di Klinghoffer, assassinato dai membri del commando? Risponderò, caro Mancini, con qualche notizia su due protagonisti della vicenda. Come scrive Alessandro Silj in un libro pubblicato da Corbaccio nel 1998 (L’Alleato scomodo. I rapporti fra Roma e Washington nel Mediterraneo: Sigonella e Gheddafi), il colonnello North, nei mesi seguenti, poté dedicarsi a un’altra operazione: «una vendita di 500 missili all’Iran in cambio dei buoni uffici del governo iraniano per la liberazione di cinque ostaggi americani ancora detenuti in Libano (tra i quali il capo del bureau della Cia in quel Paese)». Abu Abbas tornò a fare il terrorista, ma nel 1996 il governo israeliano di Shimon Peres lo autorizzò ad entrare in Israele per partecipare a una riunione del Consiglio nazionale palestinese. Dopo gli accordi di Oslo era diventato pacifista e a Peres sembrò utile autorizzarlo a ritornare in circolazione. Abbas ebbe una nuova autorizzazione nel 1998 e s’installò per qualche tempo nella Striscia di Gaza dove dette una intervista a Charles M. Sennott del Boston Globe. Il presidente del governo israeliano, in questa nuova circostanza era Benjamin Netanyahu. Chi è senza colpa scagli la prima pietra.
Sergio Romano