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 2013  aprile 02 Martedì calendario

ADDIO A LAMI, ESEMPIO DI INVIATO SEMPRE «SPECIALE»

Se n’è andato Lucio La­mi che per oltre mezzo secolo è stato interpre­te e protagonista d’un giornalismo alto, nobile, impe­gnato e appassionato. Era nato in Lombardia, ma d’origine toscana. I Lami, come i Montanel­li, ricordava, hanno vissuto e so­no cresciuti per secoli «a latte e stilettate» nel triangolo Empoli-Orentano-Pontedera, i Monta­nelli a Fucecchio, i Lami a San­ta Croce. Nutrito di buoni stu­di, Lami, classe 1936, debuttò a ventiquattro anni in un quoti­diano, La Notte, che aveva un di­rettore straordinario, Nino Nu­trizio. Dopo l’esordio, la carrie­ra di Lami si svolse dapprima nei settimanali con editori che si chiamavano Gianni Mazzoc­chi, Edilio Rusconi, Arnoldo Mondadori, Angelo Rizzoli.
La svolta che l’avrebbe pro­fondamente segnato dal punto di vista professionale arrivò con l’assunzione al Giornale, poco dopo che era stato fonda­to, nel 1974. Montanelli aveva apprezzato le qualità di scrittu­ra del suo quasi conterraneo. Con il quale ebbe dopo d’allora un rapporto «toscano, anzi di Padule, una specie di amore a dispetto».L’ingresso al Giorna­le certificava non soltanto un’affinità stilistica, ma anche, e forse soprattutto, un’affinità ideologica. Anche da giovin signore, prima dunque d’essere iscritto fra i veterani della cultu­ra, Lami era un conservatore il­luminato: affezionato ai valori tradizionali ma ben capace di capire i nuovi momenti e i nuo­vi movimenti. Un libro, Il grido delle formiche, che era dedica­to al dissenso sovietico e che gli meritò il Premio Estense, lascia­va bene intendere, per argo­mento e per svolgimento, da che parte Lami stesse. Agli ordi­ni di Montanelli - se si può par­lare di ordini per uno, come In­dro, che alla direzione era nega­to- Lami fu finalmente in grado di fare il mestiere da sempre ambito. Quello dell’inviato in terre e vicende internazionali drammatiche, quello del corri­spondente di guerra coraggio­so e intelligente. Aveva, Lami, una concezione quasi missionaria del giornalismo, sicura­mente rimpiangeva che l’ana­grafe gli avesse impedito d’esse­re testimone e narratore della seconda guerra mondiale. La carica di cavalleria di Isbuscen­skij, sulla quale scrisse un libro, riassumeva la sue passioni, l’impresa eroica e i cavalli. Un altro suo libro si occupò infatti di quel mitico Caprilli che rivoluzionò la tecnica del cavalca­re.
Come modelli di lavoro Lami ebbe figure che al lettore d’oggi dicono poco o niente, ma che furono leggendarie. Venerava Vittorio G. Rossi, secondo lui «il più grande scrittore di viag­gi. Molti giovani crescono a pa­ne e nutella. Io sono cresciuto a pane e Vittorio G.Rossi». Rispet­tava Giovanni Artieri e Max Da­vid. Ammirava, lui così rispetto­so dei doveri sociali e delle buone maniere, quel tipo o tipac­cio stravagante, affascinante, geniale che ebbe nome Gian Carlo Fusco. Il giornalismo del­le realtà quot­idiane o delle valu­tazioni politiche non l’entusia­smava. Come Ettore Mo, come Luciano Gulli, era orgoglioso d’appartenere a una élite di spa­valdi e di intrepidi ­che per la no­tizia potevano mettere a repen­taglio la vita. E così fu presente in Cambogia, nel Laos, nelle due guerre del Golfo, in Libano, nell’Afghanistan, nel Ciad e poi proseguendo tra rivoluzion­celle e guerricciole.
Il suo amore per il giornali­smo, quel giornalismo, era sconfinato e irremovibile, inuti­le voler insinuare che i lettori leggono soprattutto le crona­che locali. Riteneva che il gior­nalismo, come i libri - ne scris­se tanti, di prim’ordine- , doves­se essere maestro di comportamenti e di vita, oltre che custo­de del presente e del passato. Idealmente era sempre a cavallo, indifferente al rumoreggia­re di internet e dei vari blog. Per i suoi meriti culturali era stato nominato presidente onorario del Pen club italiano, e credo che nessun’altra scelta avreb­be potuto essere più azzeccata.