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 2013  marzo 27 Mercoledì calendario

L’ULTIMO AMORE DI MARIE COLVIN

Dove eravamo rimasti?
Io, all’Oyster Bar nella Grand Central Station di New York, uno dei posti che preferisco quando non ho compagnia. Al bancone c’è un solo sgabello libero, all’estremità. Il mio vicino ordina una seconda birra. Si gira verso di me e domanda: «Da dove vieni?». Rispondo: «Italia».
«Dove in Italia?».
«Sono nato a Bologna».
Si accende. Dice che suo padre ha liberato Bologna durante la seconda guerra mondiale. Comincia a raccontare un favoloso viaggio nei ricordi, fatto quando era bambino. L’ex soldato lo condusse sull’Appennino, in un paese dove lo accolsero chiamandolo «capitano». È infervorato, rubizzo, possente. Ha bevuto e mangiato troppo nella sua vita, ma da giovane doveva essere una specie di John Kennedy.
Nato dove?
«New Jersey».
Ha viaggiato molto. È repubblicano, ma ha votato per Johnson e per Clinton. Crede nei «ragazzi delle fattorie» e in Sarah Palin.
Domanda: «E tu, che fai?».
«Giornalista».
«Dall’America?».
«Non più, ma ci sono stato. Prima del Medio Oriente».
«Medio Oriente? Allora conoscerai la
mia ex fidanzata».
Scherzo: «E chi è? Christiane Amanpour?»,
«Marie Colvin».
Mi blocco. So chi è, Marie Colvin. E’ morta, Marie Colvin. In Siria, il 22 febbraio 2012, durante l’assedio di Homs.
Aveva 56 anni, lavorava per il Sunday Times. Era entrata in una zona proibita e da lì raccontava il massacro operato dal regime di Assad, insieme con il fotografo francese Rèmi Ochlik. Li hanno uccisi mentre fuggivano dal palazzo in cui lavoravano, identificato e bombardato. Aveva una benda sull’occhio sinistro, Marie Colvin: ricordo di una granata in Sri Lanka. Per anni aveva portato due fedi, come memento per non risposarsi più. Aveva sposato e divorziato due volte lo stesso giornalista. Il secondo marito, giornalista pure lui, si era suicidato. Su Vanity Fair America ho letto un bellissimo pezzo su di lei.
«Quell’articolo non parlava di me», dice l’uomo che, scoprirò, si chiama John
Schley. «Perché non piacevo all’autrice. Dopo che è uscito ho ricevuto una chiamata da Londra. Era il tizio che nell’articolo veniva definito “l’ultimo amore di Marie”. Mi ha detto: volevo sapessi che lei ti ha amato fino
all’ultimo. Ho pensato: vaffanculo. Poi
mi è venuto a galla un ricordo. Ho chiesto: hai una Harley? Ha detto: sì. Ho urlato: sei lo stronzo che si è mangiato il mio pollo!».
John, per favore, potresti cominciare dall’inizio?
«Okay. Ho conosciuto Marie, vediamo, più di trent’anni fa. Lei si era appena laureata, aveva cominciato a fare la giornalista, aveva un monolocale minuscolo a Londra. Io avevo vent’anni in più ed ero un fallito. Le chiesi di
sposarmi. Non eravamo ancora andati a letto. Mi guardò e disse: dove vivremmo? Dissi: io tornerei dal New Jersey e staremmo qui, nel tuo monolocale. Mi rimandò indietro. Ha avuto altri mariti, ha girato il mondo, si è fissata col Medio Oriente. Non l’ho mai persa di vista. Quando si separò nuovamente io ero ricco. Andai a cercarla, la portai alle corse. Ci amammo, infine. La accompagnai all’aeroporto, scese dalla macchina e andò verso l’ingresso. Senza voltarsi, disse: I love you. Non è mai stata capace di dirmelo in faccia.
Cinque anni fa le telefonai. Lei era a Londra, malata, io nel New Jersey. Dissi: compro un anello e vengo a chiederti in moglie. Rispose: va bene. Non sapevo neppure ci fosse una gioielleria, dove vivo. Mi dissero che era accanto al negozio di liquori e quello sì, lo conoscevo. Il commerciante era libanese, aveva letto tutti gli articoli di Marie su Internet, mi fece lo sconto. Volai da lei.
Atterrai e la chiamai. Disse: non fermarti a mangiare, vieni subito da me, ti metto da parte del pollo. Presi un taxi. Davanti a casa sua c’era una Harley. Mi aprì la porta uno sconosciuto.
Poi si buttò sul divano. Davanti a lui, sul tavolino, un piatto con ossa di pollo. Marie era sul letto, aveva la schiena rotta. Il tizio se ne andò dopo poco. Che cosa rappresentava? Il suo attestato di libertà, immagino.
Tirai fuori l’anello, ma mi impedì di darglielo: stava troppo male. Chiamammo un medico. La fece ricoverare. Decisero di operarla. Dissero che era grave: poteva morire sotto i ferri. Allora disse: è il momento, dammi l’anello. Glielo misi al dito. Lei guardò le due fedi. Disse: dovrei toglierle. Dissi: è una tua scelta. Andò in sala operatoria. Quando ne uscì era viva, e senza fedi. Restai con lei per giorni. Non ci
sposammo mai. Metteva troppe condizioni, tutte a suo favore. Libertà, libertà, libertà. Tornai in America. Mentre uscivo dalla sua stanza, dandole le spalle, dissi: I love you. Non l’ho più vista. Non l’ho mai dimenticata».
Fa una pausa. Finisce la birra. Guarda il vuoto.
Dice: «I love her».
Credo di aver capito «I loved her», al passato. Ma lo ripete, chiaramente: «I love her».
Ordiniamo ancora da bere.
Dice: «Sei un buon ascoltatore. Mi piacerebbe ci rivedessimo. Ti do il mio biglietto da visita, lasciami il tuo».
Glielo passo, lo guarda, mormora il mio nome. Dice: «Mi sta venendo l’Alzheimer. Quando mi chiamerai, perché lo farai, vero, probabilmente non mi ricorderò chi sei. Dovremmo stabilire
una specie di parola d’ordine. Chessò: Oyster Bar. No. Beirut. No...».
Lo interrompo, bevo dal suo bicchiere: «Ecco, dirò: sono lo stronzo che si è bevuto la tua birra».
Ride. Scende dallo sgabello e mi abbraccia. Un grosso pezzo d’America con la felpa, lo zainetto, 75 anni, ingrassato, alcolizzato, John Kennedy se solo fosse invecchiato, ma non è morendo che si finisce.