Riccardo Sorrentino, Luca Davi e Andrea Franceschi, Il Sole 24 Ore 2/4/2013, 2 aprile 2013
LO YUAN AI MASSIMI SUL DOLLARO
La Cina non cambia strada. La lunga via verso la "stretta" monetaria è stata confermata con il minimo storico di ieri del dollaro sceso fino a 6,2080 yuan, un livello mai toccato dal lancio del nuovo sistema di cambi nel ’94. Il record, tollerato dalla Banca del Popolo che nulla ha fatto per contrastarlo, ha segnato l’intera giornata del mercato valutario, quasi tutta "asiatica": le tensioni coreane, i dati sull’economia reale cinese quelli sul Giappone hanno guidato gli scambi.
La Cina è stata al centro delle attenzioni. I flussi di capitale sono in crescita, anche per le aspettative di un orientamento sempre più restrittivo della complicatissima politica monetaria del Paese, e questo ha spinto la valuta. L’inflazione d’altra parte è balzata a febbraio al 3,2%, dal 2% di gennaio, e questo ha preoccupato le stesse autorità che proprio a febbraio, per la prima volta da giugno, hanno drenato liquidità, con una decisione che è suonata come un segnale.
Novità più sostanziali sono in realtà premature. La mossa di febbraio - come nota Jian Chang di Barclays - ha sicuramente spostato l’orientamento della Banca del Popolo da "espansivo" a "neutrale" e ha segnato quindi l’ingresso in una fase nuova, suggellata dal record di ieri. Le aspettative sono però andate oltre e puntano ora a un irrigidimento delle condizioni monetarie (che in Cina può essere effettuato in molti modi rispetto al solo classico rialzo dei tassi).
I tempi, in ogni caso, sembrano lunghi. Questo lontano orizzonte temporale può spiegare perché ieri sia parallelamente scattata una flessione sui tassi interbancari di mercato dopo l’annuncio di un indice Pmi - che misura il livello attuale di attività economica - in rialzo (a 50,9 da 50,1) ma a livelli inferiori al previsto. L’incertezza così generata, notano gli analisti, è destinata a rendere ancora più lenta l’evoluzione della politica e dei mercati cinesi.
È raro che yuan e yen si muovano in senso opposto e ieri la valuta giapponese - considerata un sostituto della moneta di Pechino - ha guadagnato terreno, anche sulla spinta di flussi di capitali australiani e neozelandesi che si sono disimpegnati dalla Cina a causa delle incertezze economiche. Non sono mancati, però, fattori geopolitici come le tensioni tra Corea del Nord e Corea del Sud - il won di Seul è calato ai minimi da una settimana, complice anche la crescita zero dell’export a marzo - ed elementi interni tutti giapponesi. Tra questi hanno avuto un ruolo i dati sulle vendite di alcuni importanti beni di consumo - auto, schermi tv - che segnalano una stabilizzazione degli acquisti delle famiglie nel primo trimestre; e quello sulla produzione industriale. Il dollaro è dunque calato fino a 93,34 yen, da 94,18, e l’euro è passato a 119,96 da 120,71 di venerdì. Anche se in realtà si attende, per la riunione della Nippon Ginko, la Banca del Giappone, di giovedì un ampliamento degli acquisti di titoli di Stato che in teoria dovrebbe pesare sul cambio.
Più tranquille le valute "occidentali". Un po’ a causa della Pasqua, che ha tenuto chiusi ieri alcuni mercati, un po’ per l’attesa di due importanti eventi della settimana. Innanzitutto la riunione di giovedì del board della Banca centrale europea che non dovrebbe muovere nulla, ma che è la prima dopo il caos cipriota ed è successiva ai dati piuttosto deboli sull’economia di marzo. Il mese scorso, a Francoforte, i governatori sono tornati a discutere di un eventuale taglio dei tassi e gli investitori - senza grandi attese per questa settimana - vogliono capire come evolve il dibattito e quando, eventualmente, ci potranno essere nuove iniziative.
Sull’altra sponda dell’oceano, si attendono i dati sui mercati del lavoro di marzo. La Federal reserve ha condizionato il mantenimento dell’attuale politica ultraespansiva al raggiungimento dell’obiettivo di disoccupazione del 6,5% (dal 7,7% di febbraio) e sarà importante capire di quanto l’economia si sia avvicinata al bersaglio e quindi al rialzo dei tassi. L’ultima indicazione disponibile, fornita dall’indice Ism manifatturiero - l’analogo del Pmi - segnala un’accelerazione dell’espansione della domanda di lavoro malgrado la frenata dell’attività, che cresce a una velocità un po’ meno rapida rispetto a febbraio e alle attese degli economisti (che avevano comunque anticipato un rallentamento).
In questo quadro, la valuta comune ha terminato la seduta in leggero rialzo a 1,2854 dollari, dopo aver toccato un minimo a 1,2772, poco sopra il livello di 1,2750 - il più basso da quattordici mesi - segnato mercoledì. La tendenza, dopo le tensioni cipriote, continua a puntare su un indebolimento dell’euro.
Riccardo Sorrentino
MA SE L’EURO ARRETRA NON DIPENDE SOLO DA CIPRO–
Si pensa subito a Cipro. Non senza ragioni: l’isola ha mostrato come la crisi creditizia di Eurolandia non sia finita, ha creato qualche spavento tra gli investitori per il coinvolgimento dei grandi depositi ("tagliati" fino al 60%), ha risollevato i dubbi sulla tenuta di Eurolandia, ora che il Paese con i controlli sui capitali è di fatto quasi isolato dall’Unione monetaria.
La flessione dell’euro è però iniziata prima: a febbraio, dopo che il cambio sul dollaro aveva toccato quota 1,3711 - il massimo da 14 mesi - e quello effettivo aveva raggiunto (il giorno prima, in realtà) quota 102,78. Da allora la moneta comune ha perso, fino a mercoledì scorso, il 3,5% sulle valute dei principali partner e il 7% su quella americana, ondeggiando poi sui minimi.
Qualcos’altro è dunque accaduto. La crisi di Cipro non è l’unico fattore in gioco. Per capirlo occorre guardare innanzitutto al dollaro, che ha sicuramente recuperato terreno: il cambio effettivo è salito nello stesso periodo del 5,6%, con un rialzo che sarebbe sbagliato legare tutto all’euro. Il settore privato si riprende, infatti, e la Fed ormai guarda verso l’exit strategy - il primo rialzo dei tassi - che resta prematura, lontana, ma che comunque costituisce prevedibilmente il prossimo passo.
La flessione della moneta unica non è però solo un rialzo del dollaro visto allo specchio. I numeri mostrano che Eurolandia ci ha messo qualcosa di suo. La recessione peggiora, i prestiti all’economia continuano a contrarsi, l’ultimo indice Pmi - che misura l’attività economica e le aspettative - è tornato questo mese a puntare verso il basso, persino l’analogo indice Ifo tedesco ha fatto un passo indietro dopo cinque mesi di rialzi. Soprattutto, l’inflazione in calo si allontana dalla soglia del 2%, dando in astratto spazio alla politica monetaria. Sullo sfondo, c’è anche lo stallo politico in Italia, continuamente citato
dagli operatori.
Sono dunque cambiate le aspettative, e questo riporta il discorso alla politica monetaria, chiamata a formarle e gestirle. È importante, in questo quadro, il fatto che la Banca centrale europea sia tornata, nella riunione di marzo, a discutere di un taglio dei tassi. In quell’occasione il presidente Mario Draghi aveva anche detto per la prima volta - come hanno notato gli analisti di Barclays e di Bank of America Merrill Lynch - che la politica monetaria resterà espansiva (accomodative, nel preciso linguaggio della Banca centrale) fino a quando sarà necessario, facendo particolare attenzione all’andamento dei tassi a breve. Per un’istituzione che non prende mai impegni per il futuro («We never pre-commit», dicono da sempre i suoi presidenti), è un fatto importante.
Da inizio marzo potrebbe essere cambiata, in peggio, la diagnosi della Bce sull’andamento della ripresa; e questo - insieme all’esistenza oggettiva di spazi per rendere ancora più facili le condizioni monetarie - ha creato l’attesa di una nuova iniziativa, forse un taglio dei tassi, nei prossimi mesi (non certo ad aprile, comunque). È l’opinione, per esempio, di Citigroup.
Fondamentale è ora il contrasto: il prossimo passo della Fed sarà probabilmente un rialzo dei tassi, quella della Bce no. Termometro preciso delle aspettative, l’euro è quindi calato. Con un effetto paradossale: la flessione sta già "facendo il lavoro" della Bce. In parte, almeno: se il calo dai massimi è significativo, il cambio effettivo resta vicino a una media di lungo periodo che non sembra un punto di riferimento adeguato alla situazione dell’economia reale, che sicuramente è in
condizioni "estreme".
Il compito della Bce sarà ora molto delicato, quasi impossibile: dovrà valutare se l’allentamento delle condizioni monetarie è sufficiente, ma anche se è sostenibile. Il calo della valuta è uno strumento per aiutare economie con una politica fiscale bloccata a risalire la china del ciclo (per le carenze strutturali, invece, occorre altro). D’altra parte, però, l’aspettativa radicata di una flessione del cambio può rendere più complicate le prossime aste di titoli di Stato perché potrebbero essere chiesti rendimenti più alti per compensarla. È un gioco di equilibri, quello che andrebbe costruito, davvero
molto complicato.
Riccardo Sorrentino
È LA FIDUCIA A MUOVERE IL MERCATO DEI CAMBI – Fiducia. È questa la parola chiave per interpretare l’andamento degli ultimi mesi delle quotazioni dell’euro e per cercare di capire in quale direzione si muoverà nei prossimi.
È stata infatti la fiducia sull’irreversibilità dell’euro, garantita dalle parole del presidente della Bce che lo scorso 26 luglio si disse «pronto a tutto» per salvaguardare la moneta unica, a permettere la prodigiosa ripresa delle sue quotazioni.
L’euro, che il 24 luglio scorso toccò il minimo sul dollaro a 1,2061, proprio grazie alle parole di Draghi è infatti risalito fino a 1,3640 (ai massimi da novembre 2011) lo scorso 2 febbraio. Un rally notevole, accentuato peraltro dalla relativa debolezza del dollaro, che si è tuttavia ridimensionato nelle ultime settimane.
Dopo l’esito delle elezioni italiane di fine febbraio e la gestione maldestra dell’emergenza Cipro la fiducia sulla tenuta dell’euro ha fatto posto ai fantasmi del passato. Il rischio di un’implosione della moneta unica è tornato alla ribalta e i mercati hanno reagito di conseguenza. Sul fronte obbligazionario sono tornate forti vendite sui titoli dei Paesi periferici (Bonos e BTp) accompagnate da acquisti sui solidi, benché poco redditizi, Bund tedeschi. L’euro per contro è sceso ai minimi da quattro mesi sotto la soglia di 1,28 dollari.
La correlazione tra i due asset è evidente se si mette a confronto l’andamento dello spread Bund-BTp con quello del cambio euro dollaro. E questa chiave di lettura è utile per capire come si muoveranno le quotazioni della moneta unica nei prossimi mesi.
«Sono convinto - commenta Robert Baron di Delta Hedge - che nel breve periodo la discesa dell’euro sia destinata a interrompersi. Tuttavia nei prossimi mesi ci sarà molta volatilità. Questo perché in Europa restano ancora molti nodi da sciogliere. A partire dall’intricata situazione politica italiana».
Non c’è però solo l’incerto assetto istituzionale tricolore nel radar degli investitori. La riacutizzazione delle tensioni finanziarie nell’Eurozona, unita ai magri dati economici provenienti dal Vecchio Continente, potrebbe spingere la Bce ad effettuare un nuovo taglio del tasso refi in aprile o maggio. Ecco perché molti analisti confermano una visione ribassista sulla moneta unica. Del resto, l’andamento delle valute in questa prima parte dell’anno è significativa.
Dal primo febbraio a oggi l’euro contro il dollaro è stata le seconda peggior valuta tra le principali dieci al mondo (solo la corona norvegese ha fatto peggio), con una perdita superiore al 6 per cento. E non molto meglio va se si avvia il confronto dal primo di gennaio: in questo caso l’euro è la quinta peggior valuta, con un deprezzamento superiore al 3 per cento.
Nel primo trimestre l’andamento peggiore è quello dello yen, che contro il biglietto verde ha lasciato sul terreno quasi l’8 per cento. La valuta giapponese è reduce dalla sua maggior svalutazione da venti anni a questa parte per effetto della politica monetaria ultraespansiva adottata dalla Bank of Japan su pressione del Governo di Shinzo Abe. E molti osservatori sono convinti che la discesa della valuta giapponese su dollaro ed euro sia destinata a continuare.
Da questo punto di vista il mercato attende con particolare attenzione il direttivo della banca centrale di domani e dopo domani. Il primo sotto la gestione di Haruhiko Kuroda. Il nuovo governatore è considerato un "falco", appellativo che in Giappone ha un significato opposto rispetto a Europa e Stati Uniti perché indica chi vuole una politica monetaria molto aggressiva finalizzata a battere la deflazione e quindi a creare inflazione.
Il suo primo appuntamento con i mercati sarà cruciale per capire se vorrà tenere fede alla sua fama (e quindi svalutare ulteriormente lo yen) oppure si mostrerà più prudente.
Luca Davi e Andrea Franceschi
GUERRA DELLE VALUTE –
Con questo termine si intende la competizione tra le Banche centrali che, per rilanciare le economie, mettono in atto politiche espansive per svalutare la moneta allo scopo di favorire le esportazioni. Ad aprire le danze è stata la Fed che, per far fronte alla crisi finanziaria seguita al crack Lehman, ha azzerato i tassi di interesse e varato tre piani di acquisto di titoli di Stato che hanno più che triplicato il suo bilancio (superando i tremila miliardi di dollari). Recentemente il Giappone ha messo in atto una svalutazione aggressiva dello yen attraverso le scelte espansive della Bank of Japan. In questa "guerra" la Bce ha armi spuntate dato che il suo statuto si limita al controllo dell’inflazione e le vieta di stampare moneta.
EMERGENTI, MENO EURO NELLE RISERVE –
Si riducono gli investimenti sovrani in euro. Nel 2012 le banche centrali dei Paesi emergenti hanno ridotto le proprie riserve in euro, vendendone 45 miliardi: la moneta unica rappresenta ora solo il 24 per cento, il livello più basso dal 2002 dopo il picco del 31% nel 2009. Il dollaro resta stabile al 60% delle riserve.
I dati - secondo il Financial Times - mostrano «i danni che la crisi del debito ha causato allo status dell’euro sui mercati internazionali»: «La scelta della composizione delle riserve invia infatti un chiaro messaggio sulla valuta che i Paesi emergenti ritengono più stabile, sicura e liquida».