Malcolm Pagani, il Fatto Quotidiano 2/4/2013, 2 aprile 2013
“MIA MARTINI RESTERA’, GLI IDIOTI CHE L’HANNO UCCISA NO”
Era di Maggio. La Citroën verde in giardino. Il rumore dei passi sulla ghiaia. I curiosi. La sorella. Il padre, figlio di un sarto “Geniale e violento”. Renato in lacrime, senza più Zerofollie. Le sirene. L’ambulanza. I poliziotti. L’arresto cardiaco e la decenza in manette. Il fine pena mai di Mia Martini, l’untrice condannata dalle dicerie. Esposta all’ergastolo della superstizione: “Porta sfortuna, è una jettatrice”. Cancellata dai debiti. Lasciata sola a difendersi dall’emarginazione con un telefono in mano, una tuta, la postuma impudenza del magistrato di turno in sottofondo: “Aspettate l’autopsia, ci saranno sorprese” e un paio di cuffie sulle orecchie. La vera musica. L’ultimo appiglio. L’origine e la fine. Cronaca. Immeritata prosa. Smarrita poesia. “Adesso non c’è più” scrive Aldo Nove in coda al suo disperato Mi chiamo… e lo certifica quasi in versi, restituendo a Mia Martini la prima persona per raccontarsi. Andando a cercare le note di Minuetto “complice il grande Califano” nel Penny’s arancione della sua adolescenza e la lirica e il componimento nella biografia di Domenica Bertè. La ragazza che reagì in metrica finché ne ebbe la forza: “Perché parlate di me/ cosa c’entro io con voi?/ di sicuro non vorrei incontrarvi mai/ giocate pure con me senza problemi/ tanto non mi romperò/sono di plastica infrangibile/modello scomponibile”. Quella che aveva preso in prestito il nome da Mia Farrow e il cognome da una gloria transnazionale: “Il Martini e la pizza li conoscono in tutto il pianeta” le suggerì Crocetta, il fondatore del Piper. Mia era nata in una Calabria di periferia e poi fuggita via in Lombardia, a 47 anni, in un satellite nei pressi di Malpensa, senza più voli da immaginare che non fossero di sola andata. “Ma come Amy Winehouse, Mia non si è uccisa. Ha preso farmaci e alcool, capito di star male, provato a chiedere aiuto”, dice oggi Antonio Centanin in arte Nove, uno che con il mastice del pregiudizio e dell’inquadratura iniziale fa i conti fin dai tempi del suo Woobinda e dell’ultimo mondo cannibale in letteratura. “Una cosa da ridere di fronte a quel che ha subìto Mia”. Per pigrizia e semplificazione il recinto in cui rinchiuderlo era già delimitato. Ammaniti, Brizzi, Scarpa, Santacroce e poi Nove, quello che profetico, prima di tutte le villette a schiera e i plastici di Vespa, si era presentato con un incipit: “Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, il ‘Pure and vegetal’”. Il suo inno a Mia Martini è pubblicato da Skira (la casa editrice che divulga le opere di Francis Bacon) e non stupisce, perché per andare a fondo di una sofferenza, c’è bisogno di astrazioni e coincidenze. Bacon rimpiangeva il punto di vista: “Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito”. L’arte di Mia esplorava il dolore dell’amore. Nove si è calato nel meccanismo di un’esclusione sociale: “Ascoltando decine di testimoni ed evitando a riportare alcune storie troppo brutte. Le cose più vere spesso non sono verosimili, ma Mia è stata colpita da una stupidità così sorda che a ragionarci, spaventa”.
Lei scrive: “Anche se tutti si toccavano le palle al mio passaggio, io ero lì”. Sanremo, 1982. Una fotografia tra le tante.
Scrivo anche che per Mia gli anni 80 sono stati “Il luogo in cui prima c’era stato troppo”. Credo sia vero. Era accompagnata da storie vergognose, fin dai 60.
L’arresto in Sardegna, fuori dal Pedro’s, 4 mesi di carcere nel ’69.
Per mezza canna, quando ancora non si chiamava Mia Martini. Sbattuta sui giornali, con il rimmel, le lacrime e il titolo: “Ecco la drogata”. La sua esistenza è stata un’altalena. Rinunciava alla spazzatura commerciale, si impelagava in titaniche questioni di principio con le case discografiche e per coerenza, regolarmente, la pagava. “Sono un’artista pura” diceva. Lo era. Ma circondata da sciacalli e pescecani.
Si è chiesto perché non sia ancora qui?
Forse perché non le è bastato l’affetto. Quando sento dire: “È stata debole” mi indigno. Provate voi a convivere con 20 anni di solitudine e cattiveria. Crollerebbe chiunque.
Per scrivere ha parlato anche con Loredana?
No, ma ho parlato con il padre e con Gianna Bigazzi, la moglie di Gian Carlo che a Mia era stata molto vicina. Era timida, Mia. Non le piaceva apparire, covava un’indole visceralmente femminista e se voleva presentarsi con i bigodini in testa o con uno scialle viola, pur sapendo che nessuno voleva vedere l’artista per ciò che era realmente nella vita, lo faceva.
Come Califano, che per Mia scrisse due capolavori.
Non era nella squadra dei cattivi, il fantastico Califfo. Uno che nonostante le avventure che aveva affrontato, nei confronti di Mimì era stato sempre vero, sincero, affettuoso. Si volevano bene.
Aznavour era incredulo: “In Italia avete un simile miracolo e non ve ne siete accorti?”. Oltre Ventimiglia era difficile invitarla anche nei tanti simil Castrocaro nazionali.
La chiamavano a suonare in alcune serate tv per poi tagliarla in sede di montaggio. Nel libro ci sono autisti che dopo averne intravisto la sagoma dal finestrino, la abbandonano sotto la pioggia nelle stazioni di provincia, gente che la scorge e urla: “cambiate canale!”, ristoratori che si rifiutano di servirla e colleghi che al suo nome rinunciano all’ingaggio.
“Sono solo un essere umano” dice inseguito nei cessi della metropolitana prima di raggiungere la pace definitiva il protagonista dell’Elephant man di David Lynch. Era inseguita anche Mia Martini?
Per anni fu l’innominabile. L’irrazionale è più efficace di qualunque considerazione.
Mia Martini lo sapeva: “Meglio essere sospettati di avere l’Aids. Si può sempre fare un test per smentire la voce. Ma per la sfiga cosa fai? Una radiografia?”.
Un meccanismo diffuso, allucinante, non nuovo alle accolite artistiche, agli ambienti relativamente piccoli e dominati da cattiva coscienza. Mario Praz, il nostro anglista più meritevole, ha vissuto in maniera infernale. Per anni fu l’innominabile.
Mia Martini lo è ancora?
Fino a quando non scomparirà quella generazione che in modo diretto o indiretto ha contribuito alla sua esclusione, non se ne verrà a capo. Di inviti in tv ne ho ricevuti pochi. Ho avuto l’impressione che ci fosse imbarazzo, che affrontare il tema disturbasse. Se avessi le prove, non foss’altro che per illuminismo etico, farei i nomi. Non importa. Io so che Mia Martini resterà. Idiozie e idioti, no.