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 2013  aprile 02 Martedì calendario

PITRUZZELLA, AMICO E SOCIO DI SCHIFANI

Nato a Palermo, 53 anni, è presidente dell’Antitrust, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato che avrebbe dovuto vigilare anche sul conflitto di interessi di Berlusconi premier. Deve la sua nomina all’Antitrust (decisa dai presidenti di Camera e Senato) a Renato Schifani. Professore ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Palermo e docente nella Scuola di specializzazione in Diritto europeo, Giovanni Pitruzzella è stato consulente dello studio legale Pinelli-Schifani dove per decenni ha lavorato l’ex presidente del Senato insieme al fondatore, Nunzio Pinelli. Quando Schifani è entrato in politica, lo studio è stato ereditato dal figlio Roberto che lo ha gestito insieme a Nunzio Pinelli e al figlio Giuseppe.
DAL 2007, per circa tre anni, sulla carta intestata dello studio, il nome di Giovanni Pitruzzella figurava come professionista “off-counsel”. In pratica, era consulente sulle questioni costituzionali ma – a detta di Nunzio Pinelli – non ha mai fatturato un euro agli amici di piazza Virgilio. Inoltre Pitruzzella talvolta, sempre gratis, sostituiva nelle cause amministrative l’avvocato Renato Schifani e nel 2008 ha difeso, insieme a Pinelli junior, il presidente del Senato contro Marco Travaglio nella causa civile per le frasi pronunciate a Che tempo che fa.
Pitruzzella inoltre è stato a lungo consigliere dell’ex presidente della Regione siciliana, Totò Cuffaro, con il quale ha scritto un libro: Il coraggio della politica, nel 2003. Nello stesso anno Cuffaro è stato indagato per i suoi rapporti spericolati che poi gli sono costati la condanna definitiva a sette anni per favoreggiamento con l’aggravante di aver aiutato la mafia. Destino opposto per i due coautori: mentre Totò si avvicinava alla cella, Giovanni decollava verso Roma. Diventa membro della commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici nel marzo del 2006, un incarico da 90 mila euro agguantato alla vigilia delle elezioni che portarono alla vittoria del centrosinistra. Poi, quando Schifani raggiunge la presidenza del Senato, Pitruzzella viene promosso nel settembre 2009 a presidente della commissione scioperi, pagato 118 mila euro. Posto che lascerà, sempre grazie a Schifani, il 18 novembre del 2011 per diventare addirittura presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, con un emolumento che sale a 465 mila euro per riscendere a 302 mila euro grazie al tetto imposto successivamente dal governo Monti.
Dopo la nomina, Salvatore Bragantini sul Corriere della Sera scrive: “Quali siano le competenze specifiche maturate dal costituzionalista palermitano nel campo degli abusi di mercato, della concorrenza sleale, delle intese lesive della concorrenza, il comunicato che annuncia la nomina non ce lo dice, per una semplice ragione: esse non esistono”. Ma è un’eccezione: Pitruzzella piace a tutti. La sua fama non viene scalfita nemmeno quando si scopre che un ex collaboratore del suo studio (Marco Lo Bue, 28 anni, figlio di un ex socio di Pitruzzella nella proprietà di una barca) dopo aver superato un concorso, è stato assunto dall’Autorità.
E NONOSTANTE sia membro di un’Autorità di garanzia, Pitruzzella ora entra in una commissione di ausilio al governo. Non è noto se l’incarico sarà retribuito. Ma Pitruzzella non ha scelto certo la carriera pubblica per i soldi: nel 2005 grazie alla sua professione era stato il primo contribuente siciliano con 1,7 milioni di euro di reddito.

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GIORGETTI E QUELLA MAZZETTA INCASSATA IN PIENO PARLAMENTO -
Giancarlo Giorgetti, 46 anni, è capogruppo della Lega Nord e presidente della Commissione speciale alla Camera. Bocconiano, cugino di Massimo Ponzellini, da sempre abile e schivo tessitore di rapporti tra la Lega e il mondo della finanza e delle fondazioni bancarie. Il suo nome resta impresso nelle cronache per “non aver rifiutato”, semmai dirottato, l’unica tangente (nota) della storia allungata in Parlamento. Commercialista prestato alla causa di Alberto da Giussano, ha fatto parte del consiglio di amministrazione di Crediteuronord, piccolo istituto di credito fondato dalla Lega, ma subito arrivato a un passo dal fallimento. In qualità di presidente della commissione bilancio, è stato poi uno degli uomini chiave della lobby che sosteneva l’ex governatore di Banca d’Italia, Antonio Fazio. In questi panni nel 2004, si è ritrovato sul suo tavolo un foglio di giornale con dentro 100mila euro, una stecca. Soldi che Fiorani racconterà di aver portato a Giorgetti come ringraziamento per aver smussato l’ostilità dei leghisti verso il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio e l’operazione Antonveneta. Nei verbali è lo stesso Fiorani a precisare che Giorgetti “non ebbe alcuna reazione”. Salvo richiamarlo alla sera e dirgli di venirsi a prendere quei soldi e che, in alternativa, avrebbe potuto aiutare la polisportiva Varese con una sponsorizzazione. Detto, fatto. La polisportiva incassa, nessuna denuncia. Sarà poi un gran manovratore dietro le quinte, tanto da guadagnarsi il nomignolo di “Gianni Letta di Bossi”. Non farà parte del cerchio magico, ma è tra i fedelissimi del Senatùr, prima e dopo la malattia. Le ossa se l’è fatte negli anni Novanta al seguito di Gianluca Ponzellini e Angelo Provasoli, pedigree perfetto per curare gli interessi dell’ombelico del leghismo (banco di prova, l’incarico di revisore contabile del Comune di Varese). Naturale pensare a lui per spingere in Parlamento le “istanze del territorio” e farne l’ambasciatore tra le capitali. È sul suo tavolo che sfileranno i dossier che contano, giù al Nord: Malpensa, Expo, la Fiera, A2A. Finmeccanica? “Ci pensava Giorgetti”, dirà Bossi mentre l’uomo della comunicazione (Borgogni) ammetterà di aver pagato dazio assumendo un parente del futuro “saggio”. Il Senatùr lo porta in palmo di mano, pensa a un ruolo da delfino che sarà solo sfiorato. Il predestinato annusa l’aria e si tiene defilato. Sarà segretario della Lega per un decennio ma senza lasciare il segno. Il terremoto di poltrone e poteri in via Bellierio lo vedrà schivare i sassi. Nel federale che ha suggellato l’uscita di scena di Bossi sarà contestato come “traditore” ma l’onta scivola via tra i cocci che Maroni incolla a suo modo, rimettendolo in pista come capogruppo nella XVII legislatura.

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BUBBICO, IL “GENERALE” LUCANO DEI BANCHI CON SOLDI PUBBLICI - Nato a Montescaglioso (Matera) 59 anni fa, Filippo Bubbico è senatore Pd, è stato presidente della Regione Basilicata ed ex sottosegretario del governo Prodi. Tra le sue perle di “saggezza” si contano il via libera per la costruzione di un villaggio turistico sulla foce del fiume Agri e la nascita di un fallimentare allevamento di bachi da seta in Basilicata. Ma è nella battaglia (vinta) contro il governo Berlusconi, per l’insediamento – a Scanzano Jonico – del deposito unico per le scorie nucleari, che Bubbico dà il meglio di sé. Nessuna condanna all’attivo, nel novembre 2003, fu soprannominato il “generale Bubbico”: prese la testa di un’imponente manifestazione – 100 mila persone, in una regione che conta 600 mila abitanti – contro l’insediamento del deposito per le scorie nucleari. E se la cronaca registrò la vittoria del “generale Bubbico”, la medaglia è però macchiata da un dettaglio che, in Basilicata, nessuno dimentica: Bubbico – di quel decreto e di quel deposito – aveva già saputo dal governo. Ma prima della protesta – e anche dopo – si guardò bene dall’avvertire i suoi concittadini. Anzi, querelò l’ex ministro Carlo Giovanardi che, in un’intervista, disse: “Bubbico? Sapeva eccome”. Giovanardi è stato assolto quando ha esibito un verbale del Consiglio dei ministri del novembre 2003 nel quale, l’ex ministro Altero Matteoli, riferisce in Consiglio: “Il presidente della Regione ha detto: ‘Non sono entusiasta, non dirò mai accogliamo il sito, ma non farò neppure le barricate. Subirò la scelta di governo senza fare troppe storie’”. Stando alle parole di Matteoli – che Bubbico non ha mai confermato – non è stata una gran prova di trasparenza. Il suo curriculum giudiziario è immacolato nonostante diverse accuse. L’ex direttore dell’Asl di Venosa l’accusò di averlo ingiustamente “licenziato”: indagato per abuso d’ufficio, posizione archiviata. Luigi de Magistris, nell’inchiesta “Toghe Lucane”, l’accusò di rappresentare “il collante tra quella parte della politica, della magistratura e degli imprenditori che fanno affari in violazione di legge”: altra archiviazione. Archiviata anche l’accusa – abuso d’ufficio – per la costruzione del villaggio turistico Marinagri: edificato, durante la sua presidenza, sulla foce del fiume Agri. Resta in piedi un ultimo procedimento (risale al 2005) per abuso d’ufficio: è indagato per la nomina illegittima di un consulente regionale.
Negli anni Novanta, invece, aveva pensato di creare – utilizzando anche fondi pubblici – in Basilicata un allevamento di bachi da seta: un flop totale. Adesso sembra già arrendersi sul nuovo compito: “Deve tornare in campo la politica. Si è esagerato nel ritenere che questi gruppi possano risolvere i problemi”.
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VIOLANTE E QUEGLI SCHELETRI USCITI CON 17 ANNI DI RITARDO -
Classe 1941, giudice istruttore a Torino (celebre la sua inchiesta sul “golpe Sogno”, poi assolto), deputato del Pci, del Pds e dei Ds per otto legislature dal 1979 al 2008, Luciano Violante è stato presidente della commissione Antimafia e della Camera. Il 22 dicembre 1998, in piena Bicamerale, annuncia al Foglio che “nel 1999, al termine delle riforme istituzionali, si porrà la questione dell’amnistia”. Così B. si salverebbe da tutti i processi. Ma il Cavaliere non si fida e rovescia il tavolo dell’inciucio. Il 28 febbraio 2002 Violante risponde alla Camera all’accusa del berlusconiano Anedda di voler espropriare B.: “Io sono d’accordo con Massimo D’Alema: non c’è un regime sulla base dei nostri criteri. Però, amici e colleghi, se dovessi applicare i vostri criteri, quelli che avete applicato voi nella scorsa legislatura contro di noi, che non avevamo fatto una legge sul conflitto di interessi, non avevamo tolto le televisioni all’onorevole Berlusconi... Onorevole Anedda, la invito a consultare l’onorevole Berlusconi perché lui sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di governo – che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta... Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto d’interessi e avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte!”. Violante dimentica di spiegare a che titolo e con quale faccia nel dicembre ’94 i vertici del Pds avessero garantito a B. di non toccargli le tv, all’insaputa degli elettori e in barba alla sentenza della Corte costituzionale che ordinava a Fininvest di scendere a due emittenti.
NEL LUGLIO 2009 il Corriere rivela che Massimo Ciancimino, sentito a Palermo dai pm che indagano sulla trattativa Stato-mafia, ha raccontato che nell’estate del ’92 suo padre Vito chiese agli ufficiali del Ros Mori e De Donno che trattavano con lui una “copertura politica totale” alla trattativa: da Mancino per la Dc e da Violante per il Pds. Improvvisamente folgorato sulla via di Palermo, Violante rammenta con 17 anni di ritardo che nell’estate ’92, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, il colonnello Mori gli chiese più volte di incontrare a quattr’occhi Vito Ciancimino che “voleva parlare”. E si precipita a raccontarlo ai pm Ingroia e Di Matteo. Spiega di aver rifiutato il faccia a faccia; di aver risposto che avrebbe incontrato l’ex sindaco mafioso soltanto ufficialmente in commissione Antimafia; e di aver chiesto a Mori se avesse informato la Procura. Ma, alla risposta negativa (“è cosa politica”), si guardò bene dal farlo lui. E dal domandare: quale “cosa politica ” c’era in ballo con la mafia? E chi l’aveva decisa? E a quale scopo? A meno che non sapesse tutto e non avesse bisogno di domandare. Peccato, comunque, perché a Palermo stava arrivando il suo amico Caselli, che restò all’oscuro di tutto: se l’avesse avvertito, avrebbe potuto scoprire in diretta la trattativa e sventarla, aprendo un’inchiesta con 20 anni d’anticipo.
Violante non ricordò quella proposta indecente nemmeno nel ’96, quando Giovanni Brusca svelò la trattativa del “papello”. E nemmeno quando Mori fu imputato di favoreggiamento mafioso per non aver perquisito il covo di Riina (assoluzione) e non aver catturato Provenzano nel ’96 (processo in corso). Le rivelazioni di Violante sarebbero state molto utili, in quei processi. Ma lui taceva e faceva carriera, salvo ritrovare miracolosamente la memoria quando Ciancimino lo citò.
NATURALMENTE l’estate scorsa Violante difese il Quirinale, colto con le mani nel sacco a interferire nelle indagini sulla trattativa, e attaccò il “populismo giudiziario” di chi osava criticare le manovre del Colle: “Di Pietro, Grillo, Travaglio e parte del Fatto Quotidiano sono un blocco politico-mediatico che gioca sul disagio popolare”, “aggredisce il Quirinale” ai “fini della conquista del potere” e “usa parte del mondo giudiziario come clava per realizzare un progetto distruttivo” e “abbattere i pilastri istituzionali”: “un serio problema democratico” che minaccia “la tenuta economica dell’Italia”.
Chi è più saggio di lui?