Alberto Mingardi, IL 8/3/2013, 8 marzo 2013
IL CAPITALISMO FUNZIONA
Dallo spettacolo alla politica, o viceversa. Dopo Al Gore, oggi è un altro ex dell’Amministrazione Clinton, Robert Reich, a tentare la via del cinema. Reich, economista fra i più noti degli Stati Uniti e ministro del Lavoro nel 1994-1997, ha confezionato, assieme al regista Jacob Kornbluth, Inequality For All. Documentario presentato all’ultimo Sundance Festival, con l’obiettivo di risvegliare le coscienze su un tema ancora più pressante del riscaldamento globale: la crescente divaricazione della società americana.
Ben prima che Occupy Wall Street alzasse la sua bandiera pirata, Paul Krugman vaticinava per gli Stati Uniti un avvicinamento a «livelli di diseguaglianze da Terzo mondo». Previsione inquietante, suffragata dalle statistiche sulla distribuzione del reddito e da alcuni scorci sull’evoluzione del sistema produttivo. Gli Stati Uniti importano troppo ed esportano troppo poco, si stanno progressivamente de-industrializzando, a poche isole di capitale umano di elevata qualità e alta remunerazione corrisponde un mare di gente che perde il lavoro, incalzata dalla concorrenza straniera. La classe media starebbe per scomparire, arrotonda con le garage sale (dove di norma si trova chincaglieria niente male), la miseria è all’orizzonte.
Gli Usa restano, per inciso, la prima economia manifatturiera del mondo, producendo il 18,2% di tutti i prodotti manifatturati. La seconda, la Cina, ha attratto capitali ed esportato merci forte di un sistema istituzionale molto diverso, e salari notevolmente più bassi. Viene anche di qui la paura di una corsa al ribasso, che ha il suo simbolo nella vicenda della Foxconn. Dove le condizioni di lavoro sono talmente miserabili, che solo la complicità dello Stato cinese e l’intervento di cinquemila poliziotti ha sedato, nello scorso settembre, una rivolta in catena di montaggio.
La povertà è davvero alle porte? Fra il 1980 e il 2005, negli Stati Uniti il reddito mediano è cresciuto soltanto del 3%. Al contrario, i redditi dell’1% più ricco sono quasi quintuplicati. Più diseguaglianze per tutti, appunto.
Nel suo libro Unintended Consequences: Why Everything You’ve Been Told About the Economy Is Wrong, l’ex finanziere Edward Conard ha scomposto il reddito mediano per gruppi demografici. Nel medesimo arco di tempo, il reddito mediano dei maschi bianchi negli Stati Uniti è cresciuto del 15%, quello dei maschi non bianchi del 16%, quello delle donne bianche del 75% e quello delle donne non bianche del 62%.
Perché, se per ciascuno di questi gruppi demografici è aumentato, il reddito statunitense appare stagnante?
Nello stesso periodo (1980-2005) le fila della forza-lavoro sono state ingrossate da un forte afflusso di individui appartenenti a gruppi a basso reddito (donne e non bianchi). Ciò ha creato l’illusione che nessuno abbia fatto progressi, mentre in realtà tutti hanno migliorato le proprie condizioni.
Gli Stati Uniti hanno vissuto una sorta di globalizzazione interna. Dal 1980 al 2005 sono stati creati 40 milioni di posti di lavoro che prima non c’erano, cioè un aumento del 40%, e questi nuovi posti di lavoro sono stati, per la prima volta nella storia, anche a disposizione di categorie di persone che una volta non potevano neanche sperare di ottenerli. Un aumento del 62% del reddito mediano delle donne non bianche significa un passaggio da 10.200 dollari l’anno nel 1980 a 16.500 dollari l’anno nel 2005 (sono valori al netto dell’inflazione).
Si dirà: non sono salari da capogiro. Ma sono molti più soldi di quanti non potessero sperare di guadagnare, quelle stesse persone, non duecento ma cinquant’anni fa. La crescita economica, da sola, ha già redistribuito risorse.
Prima del documentario di Reich e Kornbluth, vale la pena vedere un altro film: The Help. Ripensare a quello che era l’unico orizzonte di vita possibile per una donna di colore di Jackson, Mississippi, negli anni Sessanta, dà plasticamente prova di quanto siano cresciute le opportunità a disposizione di tutti.
Se ci interessa l’effettivo benessere materiale delle persone, non è detto che le statistiche sul reddito non siano davvero come un bikini: ciò che rivelano è suggestivo, ma ciò che nascondono è più importante. Il reddito, dopotutto, altro non è che l’indispensabile antefatto per il consumo.
Il benessere materiale delle persone è registrato dalla quantità di beni e servizi che un individuo consuma nel corso della sua vita, e nel valore che riconosce a quei servizi e a quei beni.
Gli studi che analizzano la diseguaglianza nei consumi tendono a fare una fotografia un po’ diversa, di quella scattata dai Krugman e dai Reich.
Rispetto alla quota del reddito personale consumata, l’andamento pro capite nel quintile più povero della popolazione a partire dagli anni Ottanta ha seguito una progressione non troppo diversa da quella del quintile più ricco. La diseguaglianza, vista attraverso i consumi, pare essere rimasta abbastanza stabile dai tempi di Reagan a quelli di Obama.
Guardando i dati del censimento sui consumi energetici residenziali somministrato nel 2009, Kevin Hassett e Aparna Mathur dell’American Enterprise Institute hanno sostenuto che in termini di tenore di vita reale il gap fra poveri e abbienti non è andato aumentando. Nel 2009, il 65% delle famiglie americane con un reddito complessivo inferiore ai 20mila dollari possedeva almeno due televisioni, il 100% aveva un frigorifero, il 92% un forno a microonde, il 93% una lavatrice e il 31% una lavastoviglie.
Parranno cose banali, ma forse, parafrasando Karl Popper, la rivoluzione sociale più potente di sempre è davvero quella che è stata appicciata dall’aspirapolvere e dalla lavatrice. L’una cosa e l’altra hanno liberato il tempo delle classi lavoratrici, e segnatamente delle donne. E l’una cosa e l’altra sono una chiara dimostrazione dell’ansia più genuina di una società di mercato, nella quale le innovazioni si propagano a tutti i livelli, tramite un processo nel quale continuamente i prodotti si migliorano e i prezzi s’abbassano. Pensate alla capillare diffusione del telefono cellulare: trent’anni fa un accessorio per ricchi, oggi strumento essenziale per tutti, dal manager all’immigrato che lavora in cantiere. Tutti ora possono intrattenere conversazioni a lunga distanza praticamente con chiunque: un privilegio, cent’anni fa, precluso persino ai più potenti sovrani.
Buona parte di questi straordinari miglioramenti è dovuto a cambiamenti radicali nel mondo del commercio e delle spedizioni. Le merci viaggiano più veloci e più lontano. Le reti di distribuzione sono in permanente rivoluzione. I supermercati, le grandi catene, l’e-commerce: lo spazio degli intermediari si riduce, e per i clienti si libera potere d’acquisto. Quando il mercato è globale, tutto è più vicino. Internet ci consente di confrontare con un paio di clic prezzi e caratteristiche di ciò che desideriamo. L’espressione «sovranità del consumatore» non è mai stata più pregnante: è esperienza quotidiana.
È curioso, allora, che proprio in un’epoca nella quale il superfluo di ieri oggi è necessario ed economico, si diffonda il sentore di una nuova guerra di classe. La polemica contro l’1% più ricco trova il suo antesignano illustre nel sociologo Thorstein Veblen, l’autore de La teoria della classe agiata.
Per Veblen, raggiunto un certo livello di benessere economico, la spesa comincia a essere superflua, motivata sostanzialmente dalla fame di «status» dei ricchi. Sopra una certa soglia, il consumo diventa «vizioso», pura ostentazione di oggetti in buona sostanza inutili, che «sabota» la società, drenando risorse che avrebbero potuto finanziare investimenti produttivi. Si trattava, a suo dire, di un atavismo: l’agiatezza vistosa dei capitani degli affari rispondeva a quel bisogno di «status» che aveva motivato le vecchie aristocrazie, affezionate ai valori dell’onore e alla pratica dell’ozio.
Oggi che quella fra beni essenziali e voluttuari è una distinzione sempre più porosa e mobile, i critici della classe agiata la prendono dal lato dei redditi. La crisi finanziaria ha dato frecce nuove al loro arco, additando al pubblico ludibrio le stellari retribuzioni dei manager di Wall Street: ricchi come Creso, anche quelli che hanno portato le loro banche alle soglie del fallimento. Questa ricchezza andrebbe drasticamente redistribuita per via fiscale: Robert Reich è un grande sostenitore di aliquote dal 50% (sopra i 500mila dollari di reddito) al 70% (sopra i 15 milioni) per i super-ricchi.
Ma c’è un errore concettuale grande, che informa questo sovrapporre statistiche sulla distribuzione del reddito e nuove imposte. È l’idea che l’economia americana (o quella italiana, se è per quello) altro non sia che una gigantesca impresa, nella quale un singolo centro decisionale può decidere quante risorse impiegare per remunerare il capitale, quante attribuire al management, quante alla forza lavoro. La «distribuzione del reddito» assume la forma di un foglio Excel, dove le celle si spostano con un clic, e tuttavia non è che l’esito di una serie pressoché infinita di transazioni fra individui.
È il mercato a decidere delle nostre retribuzioni: nel senso, sono le scelte e gli scambi di ciascuno di noi. Il Will Smith che si fa beffe delle tasse di Hollande è strepitosamente ricco perché milioni di persone decidono di guardare i suoi film. Non l’ha "deciso" nessuno il suo reddito, perché nel suo stesso contrattare il cachet entrano in gioco fattori del tutto estranei al suo controllo. E come non c’è una classe agiata che difende se stessa, non contano i meriti e non pesano i bisogni. I Reich e i Kornbluth vorrebbero una «cabina di regia» per distribuire risorse come meglio gli pare. Peccato che il canovaccio della realtà si scriva da solo ogni giorno.