Michele Farina, Corriere della Sera 02/04/2013, 2 aprile 2013
KABUL, UNA BIMBA IN SPOSA PER PAGARE I DEBITI DI FAMIGLIA
Ha 6 anni Naghma, il suo nome significa melodia, la sua vita venduta e ricomprata vale 2.500 dollari americani. Il padre Taj Mohammed, musicante disoccupato, profugo dalla provincia di Hellmand, l’ha ipotecata come si fa con una casa, o un carretto, non potendo ipotecare la baracca dove vivono alla periferia di Kabul nel campo profughi di Charahi Qambar, la più grande delle 52 baraccopoli cresciute intorno alla capitale afghana dodici anni dopo la caduta dei talebani, un anno prima che l’Occidente faccia le valigie con le sue ong e i manuali sui diritti umani.
Bambina con ipoteca, in mancanza di altri beni: la casa di Naghma e dei suoi sette/otto fratelli è fatta di argilla e cellofan, un tetto di lamiera che non protegge dal gelo (che lo scorso Natale ha ucciso il fratellino Janan, 3 anni), pavimento di terra e stuoie dove di notte gli umani si rannicchiano sotto le coperte made in China e i pennuti si stringono nelle gabbiette. Sono la ricchezza canora della famiglia, dieci gabbiette di quaglie, quegli uccellini a cui il trentaduenne papà insegna a cantare per poi rivenderli al mercato, a prezzo maggiorato ma non sufficiente per mantenere la prole. Dieci gabbiette, pochi denari. Dieci bambini, un capitale. Un anno fa Taj Mohammed ha chiesto un prestito a un vicino per pagare i conti dell’ospedale per la moglie e il bambino malato. Come contropartita ha offerto, ha dovuto/voluto offrire la piccola Naghma. Il debito è lievitato a 2.500 dollari. Taj Mohammed non ha i soldi per ripagarlo. Così il vicino, questa specie di scespiriano mercante di Kabul però integerrimo e rispettato, ha bussato per riscuotere le spettanti poche libbre di bambina con la benedizione della jirga, l’assemblea che di fatto amministra la giustizia nel campo come fosse un villaggio raccogliendo i capi delle 90 famiglie di Charahi Qambar.
Tutto molto semplice, alla luce del sole, sulla carta (costituzionale) illegale ma rispettoso della tradizione. Recupero crediti alla vecchia maniera. A 6 anni venduta come serva/sposa al figlio sedicenne del creditore. In Afghanistan la famiglia dello sposo è chiamata a pagare una dote per la moglie. In questo caso Naghma è gratis. Vale il debito di 2.500 dollari. Mentre lei gioca ignara nel fango e Alissa J. Rubin del New York Times ascolta la sofferenza rassegnata della mamma Guldasta, nella baracca arriva la futura suocera per dare il primo ordine: «Meglio che la bambina smetta di andare a scuola». Il padre non fiata: «Non posso fare niente, ormai è proprietà loro».
Ora non basta il sospiro di sollievo, la fortuna di aver trovato a mezzo stampa un benefattore che ha riscattato Naghma nel momento stesso in cui stava per essere venduta. Ieri, dopo l’uscita dell’articolo sul Times, Taj Mohammed ha chiamato la giornalista per dare la buona notizia: un donatore anonimo attraverso un avvocato americano ha pagato il debito salvando la figlia. Naghma non farà (per ora) la fine di quella bambina raccontata da Atiq Rahimi in «Come pietra paziente», la sorella della protagonista che viene «venduta» per pagare i debiti che il padre ha accumulato scommettendo sui combattimenti di quaglie (ancora loro). A Kabul ci sono bambine che si vendono come quaglie preziose. Naghma non è avviata sulla strada della più famosa (suo malgrado) Bibi Aisha, la sposa-ragazzina a cui il marito tagliò il naso: anche lei venduta dal padre per «compensare» un torto (in quel caso un tentato omicidio attribuito allo zio).
È una tradizione (pre-talebana) dei pashtun, un modo di fare giustizia chiamato «baad»: gli adulti maschi fanno la pace cedendo e scambiando le bambine di casa. La legge afghana sulla carta proibisce queste pratiche, che però raramente vengono sanzionate. Non stupisce che Tawous Khan, uno dei capi anziani del campo dove vive Naghma, abbia detto al New York Times che è normale che il padre abbia consegnato la bambina alla famiglia del creditore: «Taj Mohammed ha dovuto dare sua figlia. Non c’era altro modo per risolvere il problema». Ma stupisce e indigna l’accusa di Wazhma Frogh, direttrice dell’«Istituto Donne, Pace e Sicurezza» di Kabul, secondo la quale il ministero degli Interni non ha mosso un dito malgrado gli esposti e le segnalazioni: «Vendere una donna è un reato». Due anni fa Human Rights Watch chiamò in causa il governo e il sistema legale: «Chi pratica il baad deve essere processato». Non esistono statistiche sulla diffusione di questo modo di farsi giustizia (almeno una decina di casi al mese) che spesso non viene denunciato. Non è opinione rara, anche tra gli stessi parlamentari afghani maschi, che tutto sommato per una famiglia «vendere» una bambina sia meglio che scatenare una faida, o perdere l’unica casa dove si sopravvive in dieci. Naghma non lo sa, ma è probabile che suo padre la pensi così.
Michele Farina