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 2013  aprile 02 Martedì calendario

NAPOLITANO E LE POLEMICHE «LASCIATO SOLO DAI PARTITI» —

NAPOLITANO E LE POLEMICHE «LASCIATO SOLO DAI PARTITI» — «Dopo sette anni sto finendo il mio mandato in un modo surreale, trovandomi oggetto di assurde reazioni di sospetto e dietrologie incomprensibili, tra il geniale e il demente...».
Giorgio Napolitano riflette sulla sua amarissima Pasqua, «il momento peggiore del settennato», nella quale si è scoperto bersaglio di una marea montante di polemiche. La sua idea di far decantare per un po’ l’aria di impazzimento generale attraverso il lavoro di un doppio comitato di specialisti incaricati di «formulare precise proposte programmatiche» in grado di divenire «in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche», è stata travisata e criticata in modo ingiusto e insolente. Giornali ed esponenti di partito — da destra ma anche da sinistra — hanno parlato di «commissariamento delle Camere», di «golpe», di «ritorno della monarchia», di «oligarchia alla corte di re Giorgio con sapore di inciucio», di «anomalia», di «presidenzialismo di fatto», di «scelta incostituzionale», di «badanti della democrazia»...
Un bombardamento per il quale il capo dello Stato oggi recrimina di sentirsi «lasciato solo dai partiti», senza che si sia voluto tenere conto di ciò che aveva spiegato davanti a cronisti e telecamere convocate al Quirinale sabato scorso, a chiusura del terzo (due compiuti da lui personalmente; un altro, più lungo, da Bersani) giro di infruttuose consultazioni per dar vita a un esecutivo.
Quel giorno — ecco la sua ricostruzione — ha pregato due gruppi di persone, diverse tra loro ma con alcune caratteristiche di competenza o istituzionali, di fare una specie di «quadro sinottico» di problemi da affrontare, tenendo conto delle posizioni che si sono espresse finora o aggiungendovi ciò che vorranno... Aveva in mente, insomma, un lavoro istruttorio che può facilitare il successivo compito per la formazione del governo.
Più d’uno ha rievocato, per diverse analogie, il famoso esempio dell’Olanda, dove nell’ottobre 2012 liberali e laburisti firmarono una pragmatica intesa, chiamata «Costruire ponti», per accordarsi su poche misure concrete, necessarie a traghettare il Paese al di là della crisi. Un’iniziativa condivisa tra forze antagoniste, «che però si parlano tra di loro, a differenza di quanto accade in Italia», e che hanno impiegato 44 giorni per raggiungere un’intesa. I comitati pensati dal presidente della Repubblica lavoreranno al massimo 8-10 giorni, e non c’è nulla di formalizzato per quanto li riguarda, nulla che consenta di dire che il Quirinale ha creato un nuovo Parlamento. In realtà, che c’entra il Parlamento, chi lo tocca?, si sfoga Napolitano.
Anche sulla controversa assenza delle donne tra i consulenti da lui messi insieme «con acrobatiche ricerche», va considerato che il capo dello Stato ha inserito i presidenti delle commissioni speciali che si sono costituite alla Camera e al Senato e che, sebbene certo gli dispiaccia che in quelle commissioni non vi sia una donna, non poteva farci niente. Anche qui, dal suo punto di vista, «si sfiora il ridicolo». Quasi che lui avesse formato addirittura un governo senza metterci una donna. E, per di più, quasi che l’opera dei comitati possa proiettarsi su un orizzonte temporale indefinito, mentre sono entrambi legati al suo mandato e oltre questo termine non possono chiaramente andare. Lui raccoglierà quel che i due gruppi avranno svolto di riflessione, di analisi, di rassegna, lo manderà ai presidenti dei gruppi parlamentari e lo farà avere, raccolto in una bella cartellina blu, al proprio successore. Tutto qui, semplicemente. Ciò che adesso rende incomprensibili, per Napolitano, certe reazioni di sospetto. Come se avesse voluto fare chissà che cosa.
A questo quadro confusissimo e al limite dell’isteria si è giunti al termine di una «giornataccia» nella quale il presidente si era reso conto d’essere completamente paralizzato. Aveva dato un pre-incarico a Bersani che, a chiusura delle sue consultazioni, gli è però andato a dire di non essere riuscito ad assicurarsi nessuna garanzia per una maggioranza al Senato: soltanto impegni aleatori del Movimento 5 Stelle e mezze promesse della Lega. Non ha chiesto di poter continuare, il segretario dei democratici. Né di veder trasformato il pre-incarico in un mandato pieno per costituire il governo, il che avrebbe implicato una formalizzazione con il giuramento e con il successivo insediamento a Palazzo Chigi insieme a tutti i ministri, anche se fosse stato battuto in Aula. Cose che Napolitano, quando ha incontrato il Pdl, aveva riferito, spiegando la propria scelta e ricevendo giudizi di apprezzamento per la correttezza dimostrata.
A questo punto è emerso, chiaramente e drammaticamente, lo stallo: 1) l’incarico a Bersani non poteva essere dato, pena un evidente rischio di fallimento; 2) la lista Monti si era dichiarata favorevole a far nascere un governo, ma solo se avesse avuto l’appoggio di entrambi i partiti maggiori; 3) il Pdl accettava unicamente un governo di larghe intese; 4) il Movimento 5 Stelle, al quale il presidente si era rivolto in modo serio e non polemico, era di fatto fuori gioco, perché quale governo si potrebbe mai formare sulla base di un 25 per cento?
Uno scenario bloccato — ragiona Napolitano — di fronte al quale sarà il nuovo presidente a prendere iniziative. Può formare il governo che crede opportuno e dare l’incarico e poi mettere il sigillo sulla lista dei ministri con il giuramento e mandarlo alle Camere... avendo comunque a disposizione già in partenza il potere di scioglimento a lui precluso. E potrà avvalersi pure dell’«istruttoria» compilata dai due gruppi di «facilitatori» (persone del tutto disinteressate o che sono già state coinvolte in commissioni analoghe in cui si era concordato qualcosa, anche se non è mai andato in porto), che il capo dello Stato insedierà stamane con la raccomandazione di verificare le distanze politiche. Ossia di rispondere a qualche semplice domanda: davvero non ci sono posizioni convergenti su alcune priorità? Esistono dei punti di divergenza superabili? Sulle loro conclusioni i partiti si potranno fare le proprie valutazioni e magari decidere se potrà essere costruita un’alleanza, un qualche governo di coalizione su quelle basi.
E le dimissioni? Quanto ci si è arrovellato sopra, Napolitano? E perché non le ha date? La risposta, benché già riassunta nella nota che il presidente ha letto sabato al Quirinale, è la seguente: ha deciso di restare al suo posto per garantire un elemento di continuità, così come un elemento di certezza è per lui rappresentato dall’operatività del governo... Se si fosse limitato alle risultanze degli ultimi colloqui che aveva avuto, avrebbe dovuto riconoscere: «Sono conclusioni che fanno disperare della possibilità di governare questo Paese». In definitiva, le sue dimissioni, che sarebbero state ampiamente motivate dalla paralisi nella quale si venuto a trovare (non poter dare alcun incarico, non poter formare alcun governo, non poter sciogliere) avrebbero contraddetto l’impegno di offrire un impulso di «tranquillità». Di dare la sensazione che «lo sforzo continua». Di confermare l’impianto del suo settennato, ispirato a «dare agli italiani un senso di comunità e di unità», come si è potuto vedere per il 150° anniversario della nostra Unità.
Giustamente il capo dello Stato ricorda quando, essendo uscita dalle urne una maggioranza, sia pur zoppicante come quella del 2006, per lui fu «uno scherzo» risolvere la crisi e formare un governo. Oppure quando si ebbe una maggioranza netta, come nel 2008, allo stesso modo non ci mise niente a insediare un esecutivo. O, infine, quando nel 2011 quella stessa maggioranza era franata, prima di dare l’incarico a Monti consultò i maggiori gruppi ed ebbe da loro la certezza che avrebbero dato la fiducia al premier tecnico, senza che lui lo mandasse al buio in Parlamento. Se oggi qualcuno proponesse di affidare il mandato a un non-politico, si scatenerebbe l’iradiddio, tutti farebbero un fuoco di sbarramento perché ripetono che il governo dev’essere politico e basta... ed è su questi diktat che ogni chance si è impantanata. Quasi che non ci si renda conto, in una rincorsa di equivoci e ambiguità interessate, che il potere di nomina del capo dello Stato — come ha sottolineato il grande giurista Beniamino Caravita — «non è libero, illimitato, affidato alla sua insindacabile discrezione, bensì è un potere teleologicamente orientato: può e deve essere esercitato affinché il soggetto nominato abbia, secondo l’articolo 55 della Costituzione, «la fiducia delle due Camere».
Presto Napolitano avrà sul tavolo le conclusioni dei suoi consulenti (la parola «saggi», puntualizza, non l’ha mai pronunciata, anche perché può far credere a un percorso di lavoro di mesi, se non quasi permanente): dal 15 aprile saranno convocate le Camere che, se saranno già pronti i rappresentanti dei Consigli regionali, tra il 16 e il 18, cominceranno a votare per il nuovo presidente della Repubblica. Oltre non potrà andare. Ciò significa che, anche se il suo settennato costituzionalmente finisce il 15 maggio, molto probabilmente lascerà prima.
Per lui non è detto che il clima agitato di questi giorni si esasperi nel momento in cui i partiti dovranno eleggere il suo successore. Dopotutto, dice, il buon compromesso fa parte della politica. E rammenta quel che accadde nel 1999, nel contesto incandescente che registrava un centrodestra all’attacco e un centrosinistra profondamente vulnerato. Bene, in quel contesto, e senza che nessuno dei due fronti in competizione avesse minimamente disarmato, il Parlamento riuscì a mandare Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale con una larghissima maggioranza. Ricorda ancora il titolo dei giornali, Napolitano: «Accordo Berlusconi-D’Alema per eleggere Ciampi». Che è stato un ottimo presidente.
Marzio Breda